Disegnare abiti da poter riciclare, la nuova sfida secondo Orange Fiber

enrica arena

I rischi del fenomeno del greenwashing (cosiddetto ecologismo di facciata) che a volte viene contestato ad alcune aziende che puntano su prodotti innovativi. Poi il ridotto potere d’acquisto dei consumatori, ma anche l’idea di iniziare a pensare a disegnare abiti da poter riciclare poi nei grossi hub che saranno realizzati a partire dal 2025. Sono tra gli spunti interessanti di Enrica Arena, CEO e Co-founder di Orange Fiber, l’azienda italiana che realizza tessuti sostenibili mediante l’impiego dei sottoprodotti degli agrumi. Realtà giovane e innovativa che nasce a Catania nel 2014 con l’obiettivo di realizzare tessuti di ottima qualità destinati al comparto della moda del lusso.

Qual è il valore del mercato della moda sostenibile? È in ascesa?

«In generale l’idea di riavvicinare il prodotto e i produttori si sta affermando di più, basta pensare al linificio e canapificio che fa capo al Gruppo Marzotto, con fibre interamente prodotte in Italia. Ancora, in Sicilia ci sono di nuovo le piantagioni di cotone, quindi, c’è in generale una maggiore sensibilità verso ciò che può essere sostenibile. Tra l’altro l’efficienza delle risorse che ne deriva è un elemento di positività della filiera».

Avrà senso nei prossimi mesi proporre prodotti magari più costosi perché sostenibili a fronte di una situazione economica abbastanza critica?

«Questo lo vedremo. Certamente sappiamo bene che il tempo di forte incertezza si riflette sulla propensione all’acquisto. Il rischio è che si opti per una scelta e un acquisto più rodati e accessibili rispetto a quelli innovativi. Quindi può certamente prevalere un approccio di tipo conservatore, restìo e che si chiude di fronte al prodotto sostenibile». E disegnare abiti da poter riciclare sarà uno degli obiettivi che potrebbe rivoluzionare il modo di fare moda.

Ma quanto costa vestire eco? Il cittadino medio (che oggi è povero) si può avvicinare ad un capo del genere?

«Ci sono molte case di moda che realizzano linee accessibili realizzate ad esempio con cotone organico o poliestere riciclato. In casi come questi, per le aziende più grandi e solide, la differenza del prezzo finale è minima. Un esempio è quello di H&M, che realizza una collezione più attenta all’ambiente a prezzi comunque accettabili. Ovviamente molto dipende dal prodotto in sé e dal livello di innovazione, però Le dico che ci sono capi alla portata di tutti».

Nel caso di Orange Fiber invece?

«I nostri tessuti possono rappresentare ad esempio l’alternativa ad un prodotto di seta. Al di là del marchio, va considerato il fatto che sono prodotti con un valore aggiunto. Noi proviamo a renderlo più accessibile ma occorre sempre considerare che si tratta di beni che durano più a lungo. Li compri una volta, magari costano un pochino in più ma ti durano anni e anni. Puoi ripararli e lasciarli anche a figli e nipoti. Quindi, se si considera il lungo termine, può risultare conveniente o certamente non più costoso dell’acquisto ripetuto di tanti capi comprati a cadenza mensile. I nostri tessuti durano anni».

Ci fa qualche esempio di capi senza tempo?

«Orange Fiber vanta collaborazioni con Ferragamo e con Marinella. Si tratta di due casi in cui ciò che acquisti ha un contenuto di valore perché durano davvero tanto tempo. Non subiscono la stagionalità e certamente non si rovinano dopo poco tempo dall’utilizzo». Si tratta di una qualità che si presta anche alla riparazione e quindi al riutilizzo. Infatti, Arena intuisce la prossima sfida del comparto moda che sarà verosimilmente quella di «disegnare abiti da poter riciclare».

Oggi con la crisi energetica e la necessità di abbassare le emissioni di CO2, i Governi sono in seria difficoltà. Secondo voi è possibile, in tempi brevi, raggiungere risultati rispettando l’ambiente (pensiamo alle forniture energetiche, gas etc.)?

«A livello generale non Le saprei dire. È tutto da vedere e da vivere. Certamente posso dirLe quello che stiamo vivendo come produttori, che è disarmante. I rincari ci sono e il timore è che questo possa scoraggiare i consumi mediante la contrazione degli acquisti da parte della gente. Temo l’abbigliamento possa subire una contrazione perché se hai meno soldi in tasca non tagli sul cibo ma sull’abbigliamento magari sì».

La vostra azienda sta già facendo i conti con l’aumento dei costi?

«Assolutamente sì. Abbiamo un aumento di costi pari al 35% circa. Tale percentuale nel tessile ha un impatto abbastanza grosso. Se poi aggiungiamo anche il fatto che in alcuni Paesi europei c’è molta attenzione, quasi guardinga, sulla sostenibilità, i timori aumentano».

In che senso?

«Mi riferisco al greenwashing (cosiddetto ecologismo di facciata relativo ad aziende che presenterebbero i prodotti come a basso impatto ambientale e magari non lo sono o non del tutto, ndr). Molti stanno avviando azioni penali verso alcuni marchi e contestano magari il mancato rispetto di alcuni parametri. Questo scoraggia i brand, perché magari si teme di sostenere costi importanti per avviare una filiera improntata alla sostenibilità e poi magari si finisce sotto accusa. Quindi, o produci a basso impatto aziendale ma non lo dici, e questo è poco motivante, o comunque ti esponi ad un rischio possibile. Ci sono marchi noti che già sono finiti sotto mira. Tutto questo, unito al periodo di grande delicatezza che stiamo vivendo, potrebbe rallentare la sostenibilità»

A monte della vostra idea d’azienda c’è la passione e la convinzione per così dire ambientalista o l’intuito rispetto ad una fetta di mercato interessante?

«C’è stato un insieme di fattori. Da una parte stavamo studiando proprio i materiali innovativi e questo ci ha consentito di partire da un osservatorio per così dire privilegiato, di conoscenza appunto. Potevamo intuire l’andamento del mercato ma questo si è unito alla creatività. Quindi, dapprima ci sono la voglia e la creatività e poi il business plan, la raccolta di capitali e tutti gli aspetti pratici».

L’idea dello scarto e del riutilizzo dell’abbigliamento certamente non tramonterà. Il futuro dei tessuti è nel disegnare abiti da poter riciclare e nel recupero degli scarti oppure in una sorta di “convivenza” tra vecchio e nuovo?

«Credo nella coesistenza tra i due. Consideri anche che non è detto che ciò che è tradizionale non sia sostenibile. Ci sono cotoni coltivati con correttezza e trasformati in abiti venduti a giusto prezzo, che quindi rispecchiano determinati criteri utilizzati nelle diverse fasi della produzione, come la giusta paga ai lavoratori. I due binari coesisteranno e la sostenibilità ci sarà ancora. Adesso il rischio è la sovrapproduzione. Gli esperti dicono di ottimizzare le risorse a nostra disposizione. Si tratta di una nuova sfida, se consideriamo che nel 2025 entrerà in vigore una nuova normativa sullo scarto. Saranno realizzati degli hub di riciclo dei tessuti. Sarà interessante ripensare a tutto il sistema moda e magari disegnare i capi già pensando che sono destinati al riciclo e alla riparazione».

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