Lo zoom di Michele Citoni dal G8 di Genova al dramma dei poveri di Johannesburg, i segreti del documentario creativo

Michele Citoni

Michele Citoni è regista specializzato in documentari. Romano, le sue pellicole hanno incassato il placet di diversi Festival Internazionali. Le lotte degli ultimi, dei diritti negati, delle ingiustizie subite sono le battaglie che rivive attraverso la telecamera. Un occhio che guarda dove gli altri non vedono: nel pieno di una manifestazione di protesta alle porte di Johannesburg, nel caos delle manifestazioni contro il G8 di Genova. Ancora il disastro di Seveso che (per i più giovani) si tratta della nube di diossina sprigionata da una fabbrica di cosmetici nel 1976. Il racconto dal basso, dalla parte della gente che non ha voce e non trova spazio nel mondo saturo dei media. Ecco, dunque, lo zoom di Michele Citoni su vicende politiche, storiche e culturali.

Da dove nasce la sua passione per i documentari?

«I semi nascono da un’esperienza politica. Negli anni Ottanta ho aderito ad un movimento pacifista e ambientalista. Il momento esatto in cui maturai una coscienza molto sensibile alle tematiche ambientali fu durante la festa dell’Unità a Ferrara. Era il 1983 e per la prima volta ascoltai Laura Conti, un medico che aveva vissuto la Resistenza da protagonista. La sentii parlare del disastro di Seveso e scrisse molto sul tema. Quando la sentii parlare mi si aprì la testa, capii che c’erano tante realtà che potevano essere raccontate, tanti Mondi da esplorare. Così tornai a Roma e mi tuffai a capofitto nello studio dell’ambiente e aderii a Legambiente. Iniziai a plasmare una coscienza politica e sociale».

Cosa c’entra tutto questo con la passione per i documentari?

«C’entra perché iniziai a coltivare una mia sensibilità che intanto avevo scoperto. Sentivo che dovevo fare qualcosa e aderii anche ad un gruppo di azione non violenta col quale partecipai al G8 di Genova. Lì mi resi conto di quanto fosse forte il video attivismo. Fu un’esperienza molto intensa». – Continua lo zoom di Michele Citoni nel passato – «Fummo travolti dal caos, c’erano gruppi molto violenti. Ricordo che parlavamo con dei poliziotti poi arrivarono degli attivisti con le peggiori intenzioni e i poliziotti erano pochi. Così provammo a dissuaderli dal non attivare lo scontro. In quell’occasione capii quanto fosse forte la democratizzazione del fare video. Ho assistito al grande impatto della diffusione dei mezzi tecnologici che sono poi alla portata di tutti».

Lo zoom di Michele Citoni dal G8 di Genova al dramma dei poveri di Johannesburg, i segreti del documentario creativo. Ma da qui a girare un documentario invece?

«Si ci sono. L’estate successiva ho deciso di prendermi una lunga vacanza. Ho comprato una telecamera e sono andato in Sud Africa per il Summit mondiale dell’ONU sullo sviluppo sostenibile. Era il 2002 ed ero a Johannesburg. Il mio lavoro era di dover fare un reportage dei movimenti di base di protesta dei poveri nel posto. Era l’indomani dell’Apartheid. Raccontavo che con la fine dell’Apartheid nel 2002 ancora si era ben lontani dagli obiettivi e dalle promesse di liberazione politiche e sociali. Quindi c’era povera gente che protestava perché si sentiva delusa. Ho documentato tutto questo. Un lato oscuro che di fatto non andava in onda durante i tg. Ho raccontato i contraccolpi di un Sud Africa che ha subìto le conseguenze di un inserimento forzato nella globalizzazione. Questo è stato il mio primo lavoro».

Dalla parte dei deboli dunque, cos’altro ha raccontato?

«Poi ho fatto un lavoro a Casato Monferrato dove c’era un insediamento produttivo di Eternit che andava chiuso. Chiaramente erano in gioco posti di lavoro e non c’era la consapevolezza dei danni alla salute provocato dall’amianto. Mi trovai a documentare la storia di una signora che aveva perso cinque familiari per l’amianto e un giorno annunciò pubblicamente che anche sua figlia si era ammalata. Morì dopo soli sei mesi. Per me fu una storia molto forte, di grande dolore. Davvero mi sono sentito messo alla prova. Questo documentario poi è stato premiato».

Il mestiere di documentarista che valore ha in Italia?

«Il documentario cui mi riferisco io è di creazione, cioè contiene molto il punto di vista dell’autore. Per me è una passione che mi fa immergere in quello che documento. Dal punto di vista pratico però guadagno facendo altro nel settore della comunicazione istituzionale. Il documentario mi dà soddisfazioni. Ho vinto diversi premi e questa passione mi consente di conoscere e vivere realtà che mi arricchiscono molto».

Lei ha documentato anche il terremoto del 1980…

«Si e così ho scoperto il fascino delle aree interne. Ho realizzato un documentario sul cratere del terremoto del 1980. Ho girato soprattutto nella provincia di Salerno, nell’alta Valle del Sele. Un’esperienza molto forte. Poi ho girato il corto “5×7, il paese in un scatola” con le foto del grande fotografo Frank Cancian oggi conservate a Lacedonia in provincia di Avellino. E ha incassato molti premi».

Il documentario anche se ha un’impronta autoriale dovrebbe rappresentare la realtà per com’è. Cosa pensa dei “dubbi” sul racconto non sempre obiettivo della guerra in Ucraina?

«Le rispondo con una frase del giornalista Peter Freeman. Lui dice che quando c’è una guerra considerare l’esercizio del dubbio è una cosa indispensabile e va compiuto in scienza e coscienza. Aiutandosi con gli strumenti che la tecnologia e non solo ci mette a disposizione […] In presenza di una guerra, quando propaganda e censura allargano oltremodo i loro spazi di intervento, il debunking (smascherare) delle fake news è una risorsa preziosa dell’informazione. Questo non significa giudicare, nè stare da una parte o dall’altra. Ma porsi dei dubbi è giusto e doveroso».

Il pubblico chiede i documentari?

«Il pubblico è saturo di un plus di contenuti, molti dei quali di pessima qualità. Per cui secondo me lo spazio ci sarebbe ma non viene colto. Il documentario rimane per un pubblico di nicchia. Ci sono sale specializzate come l’Apollo 11 a Roma oppure il circuito Documé di Torino».

Qual è il distinguo della tecnica propria di un documentario?

«In genere seguo le persone nelle vicende reali. Tuttavia un po’ di recitazione può esserci. Il punto più importante è l’onesta intellettuale, la volontà di non travisare, di non ingannare. Questo vale sia per il pubblico che per i soggetti che rappresenti».

Lo zoom di Michele Citoni accende i riflettori sulle realtà scomode e roventi. Che lo commuovono e colpiscono in pieno l’attenzione e la consapevolezza del pubblico. Tantissimi i premi vinti in Italia e all’estero. Tra gli altri: MLC Awards, Little Rock negli USA per il  miglior documentario; il FELACOS-Festival de Largos Y Cortos de Santiago a Santiago del Cile (Cile) per il miglior lungometraggio documentario dal titolo «Il futuro è troppo grande».

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