L’inflazione preoccupa seriamente la FED

Jerome Powell

Gli Stati Uniti sono ufficialmente entrati in una fase di recessione tecnica. Nel secondo trimestre dell’anno, il tasso di crescita del PIL è stato negativo, registrando una contrazione del -0,9%. Un dato che fa seguito a quello registrato nel primo trimestre, quando il PIL è invece diminuito del -1,6%. Per definizione, ricordiamo che si ha una recessione tecnica quando l’economia di un paese registra proprio due trimestri consecutivi di crescita negativa.

Il presidente Joe Biden è subito corso ai ripari, dichiarando che il motivo di una tale performance negativa è da ricercarsi nella politica monetaria restrittiva inaugurata dalla Federal Reserve con l’obiettivo di ridurre l’inflazione che sta colpendo duramente il potere d’acquisto di milioni di famiglie americane. Un j’accuse velato, ma neanche troppo, contro l’istituto centrale, a riprova del fatto che le strette monetarie non vengono mai apprezzate dai politici.

L’inflazione preoccupa seriamente la FED. Nell’ultimo trimestre, l’indice dei prezzi è infatti salito al +8,6%, un aumento che ha provocando un calo della spesa dei consumatori pari al -1,0%. La scorsa settimana, il FOMC della Fed ha reagito subito alzando, per la seconda volta consecutiva, i tassi di interesse dello 0,75% e così portando il costo del denaro negli Stati Uniti nell’intervallo 2,25-2,5%. Una vera e propria politica di front-loading sull’inflazione, da “doccia fredda”, intrapresa dalla FED nel tentativo di mettere subito in chiaro con i mercati finanziari che la banca centrale farà qualsiasi cosa riterrà necessaria per combattere il fenomeno inflattivo. A fronte di questo duro intervento sui tassi d’interesse, il governatore Jerome Powell ha però dichiarato che ci sarà un punto in cui la FED comincerà a ridurre il ritmo dei rialzi, nella convinzione (o forse solo speranza) che questo possa essere ormai vicino.

L’inflazione preoccupa seriamente la FED

Dopo la notizia dell’entrata in recessione dell’economia, tra gli economisti si è subito scatenato il dibattito se questa recessione sia davvero una naturale conseguenza delle politiche monetarie rigoriste della FED, all’interno della quale Powell è sempre più equiparato alla figura di un suo illustre predecessore, quel Paul Volcker che mise fine agli shock inflazionistici degli anni Settanta, in aperto contrasto con la politica e le lobby del tempo. O, piuttosto, se non sia stata invece la stessa inflazione ad aver causato la recessione, diminuendo i consumi aggregati.

Tutto ruota quindi attorno al nesso di causalità che si vuole imputare ai fenomeni in gioco. Per molto tempo si è vociferato del fatto che la recessione fosse stata addirittura voluta dalla banca centrale, una sorta di recessione “indotta” da accettare come effetto collaterale che la società deve pagare per ottenere l’abbattimento dell’inflazione. Meglio una recessione di breve periodo che una inflazione di lungo, questa la teoria. Che però fatica a trovare un robusto sostegno, considerando che il mondo occidentale si era abituato ormai a crescere in assenza di inflazione da quasi quattro decenni.

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