I conti pubblici migliorano, le buste paga no: ecco perché in Italia gli stipendi sono fermi al 2004

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Dal 2004 al 2024 gli stipendi medi dei lavoratori, qui in Italia, hanno subito importanti ribassi in termini di potere d’acquisto. Da uno studio pubblicato su Corriere della Sera emerge una realtà inquietante: a farne le spese, soprattutto i giovani, coloro che dovrebbero rappresentare il nostro futuro. Prospettive molto fosche, dunque, se chi di dovere non interverrà a correggere questo trend. Il fenomeno, tra l’altro, è tipico del Bel Paese; nell’area euro tutti gli altri hanno permesso che le buste paghe crescessero, dando così ai cittadini uno stipendio adeguato e soprattutto dignità lavorativa. Ma non siamo di fronte a un mistero: esistono fatti ed esistono persone che hanno permesso che i fatti accadessero. E la storia parte di lontano.

In 20 anni perso il 13% dello stipendio: dov’è andato a finire?

L’analisi svelata dal Correre offre un quadro spaventoso della dignità lavorativa degli italiani. Tra grafici e dati forniti da Dataroom da ODM Consulting, società specializzata in indagini retributive, emerge che tutte le fasce d’età dei lavoratori hanno subito penalizzazioni. In particolar modo i giovani. Le percentuali sono state calcolate al netto dell’inflazione. Riassumendo, ecco i punti salienti del report:

  • Lavoratori 41-50 anni. Nel 2004, guadagnavano in media 29.813 euro lordi all’anno; 10 anni dopo, 30.009 euro lordi; nel 2024 si scende a 29.665 euro lordi, con un-0,5%. Dal 2021 a oggi, questa fascia di lavoratori ha perso il potere d’acquisto del 4,8%.
  • Lavoratori 51-60 anni; nel 2004 guadagnavano in media 31.999 euro lordi, saliti a 32.375 euro nel 2014 ma poi scesi a 30.848 euro nel 2024. -3,6% che ha di fatto “regalato” una perdita di potere d’acquisto del 7,7%.
  • Lavoratori 25-30 anni. Nel 2004 guadagnavano in media 22.530 euro, saliti di poco a 22.616 euro nel 2014; nel 2024, si scende 22.426 euro, con un-0,5% rispetto ai coetanei del 2004 e il -0,8% rispetto a quelli del 2014. Dal 2021, la perdita è del 3,5%, percentuale che vanta anche un altro pessimo record: in Italia, gli stipendi di partenza sono i più bassi di tutta la Ue. Per fare un confronto con la Germania, c’è da ricordare che in questo Paese gli stipendi dei coetanei sono superiori del 27,3%.

Tra le motivazioni superficiali (cioè di superficie) circa questa stagnazione/ribasso dei salari rientrano le varie crisi economiche (2008, pandemia e inflazione alle stelle che ha fatto lievitare i prezzi di ogni bene e servizio di circa il 17%); ma non è ovviamente tutto qui. Sono altre, le vere cause di questa disastrosa situazione: scelte politiche ben studiate che hanno leso i diritti dei lavoratori. E, cosa ben peggiore, al momento non sembra di intravedere ancora la luce in fondo al tunnel: non ci sono proposte politiche concrete per invertire il trend.

“4 amici al bar”, i veri nemici dei lavoratori. Ecco perché gli stipendi in Italia sono rimasti fermi, e anzi sono addirittura scesi

Da quando l’Italia, come altri Paesi, è entrata nella Ue sono accadute molte cose. Tra le altre, la necessità “urgente” (questa parola ricorre molto spesso, precedentemente alla presa di posizioni politiche) di rientrare nel pareggio di bilancio e rispettare i severi parametri imposti. Semplificando, il Governo Italiano nel primo decennio degli anni 2000, non potendo svalutare la moneta in quanto aveva ceduto la sovranità ha dovuto svalutare i salari, in modo che l’industria potesse esportare a prezzi “competitivi”. Il famoso ex-piano Draghi, potremmo definirlo.

Il 5 agosto del 2011 venne inviata una lettera al Primo Ministro (all’epoca Silvio Berlusconi n.d.r) dal presidente Jean Claude Trichet della BCE e dal futuro numero uno dell’Eurotower, Mario Draghi. In questa lettera si danno precise indicazioni su come raggiungere gli obiettivi di “rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità del bilancio e alle riforme strutturali“. Tra le altre, troviamo anche la parte relativa agli stipendi dei lavoratori.

C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione

Ancora prima, era già “emergenza”; siamo nel 1992 e Guido Carli (all’epoca Ministro del Tesoro del Governo Amato n.d.r) lanciava un preciso monito: “Bisogna colpire salari e pensioni“. Molto chiaro, dunque, e proseguiva: “Siamo in emergenza, occorre anche puntare alla “crescita zero” del numero dei dipendenti pubblici. E privatizzare“.

I Sindacati, all’epoca Draghi, erano stati “informati” e “formati”, in modo da poter attuare le nuove direttive. E proprio i Sindacati, che avrebbero dovuto proteggere i diritti dei lavoratori, hanno commesso anche qualche altro “piccolo errore”, che si è abbattuto pesantemente sulla dignità e sul salario di ogni cittadino italiano. Dov’è finita la lotta salariale? Forse nel comparto delle assicurazioni sanitarie private. Probabilmente molti sanno già che dal 2016 i Sindacati hanno “regalato” ai metalmeccanici un benefit non richiesto. Parliamo dell’iscrizione obbligatoria al fondo di sanità integrativa Metasalute. Questo servizio, spacciato per welfare aziendale, è in realtà un peso economico per i lavoratori e fonte di ampi guadagni per aziende, sanità privata e sindacati stessi. Fim, fiom e uilm dopo ingenti pressioni firmarono i contratti nazionali nei quali l’adesione al fondo Metasalute non poteva più essere opzionale.

Il denaro accantonato forzatamente dovrebbe servire per ottenere cure a lavoratori e loro parenti (già garantite dal SSN? tra l’altro); 156 euro annui a lavoratore, ovvero 316 milioni di euro all’anno. Un bel gruzzolo, spalmato a dovere: le cifre detratte dalle buste paga sono soggette a decontribuzione da parte delle aziende. I sindacati, con oltre 1 milione di iscritti, gestiscono il fondo. La società non ha una sede fisica e chi vuole usufruire dei servizi deve prenotare esclusivamente online. Lo Stato tace, poiché un minor utilizzo del Servizio Sanitario Nazionale è tutto di risparmio.

Il “provato” deve piacere molto ai Sindacati, perché Metasalute non è l’unica realtà abbracciata dai “difensori dei diritti dei lavoratori”. Invece di tutelare i salari, si preferisce evidentemente “mettere le mani” su altre fortune. Un ulteriore esempio è costituito da Cometa: si tratta di un fondo di previdenza complementare dei metalmeccanici, stipulato sempre da Fiom Fim Uilm e Federmeccanica, operativo da oltre 20 anni e con oltre 475mila iscritti. Non si tratta di un obbligo in questo caso, ma il lavoratore più ingenuo può facilmente fare confusione. In sostanza, si chiede di scegliere tra il mantenere il TFR in azienda oppure aderire a Cometa. Le differenze non sono da poco. Una volta che il dipendente termina il rapporto di lavoro, nel primo caso riceve il Trattamento di Fine Rapporto (super tassato); nel secondo caso, lo riceve solamente quando va in pensione. Doveroso è ricordare che non è automatico ottenere, durante la vita lavorativa, le credenziali per accedere alla pensione di vecchiaia. Unendo i puntini, non si fa fatica a comprendere come mai, e solo in Italia, gli stipendi sono fermi da 20 anni.