Guai per chi utilizza questa funzione di WhatsApp senza sapere che rischia il penale

WhatsApp

Esistono tante applicazioni di messaggistica istantanea che ci permetto di essere in contatto con chiunque in qualsiasi parte del Mondo ed in qualsiasi momento.

La più famosa di queste è senz’altro WhatsApp.

Nel 2014 il colosso Facebook ha fatto il “colpaccio” acquistando sia WhatsApp che il popolarissimo social network Instagram.

Questa svolta ha fatto sì che molte delle funzioni dei due social più amati si adattassero anche a WhatsApp.

Con l’introduzione piano piano, ad esempio, delle storie e degli stati, che permettono al pari di altre applicazioni, di condividere pensieri, foto e momenti.

Guai per chi utilizza questa funzione di WhatsApp senza sapere che rischia il penale

Queste applicazioni sono finite spesso sotto l’occhio delle principali Autorità internazionali per la sicurezza informatica.

La motivazione è ovviamente l’uso scorretto che a volte ne viene fatto.

Per questo è stata prevista quasi da subito l’opportunità di “bloccare” altri utenti e scegliere con chi condividere i propri contenuti.

Al tempo stesso si è aggiunta la possibilità di segnalare delle scorrettezze sia nell’ambito della privacy che nell’utilizzo di parole scorrette, razzismo e incitamento all’odio.

Tuttavia a volte, nei casi meno gravi ed evidenti, resta difficile individuare i confini di certe violazioni.

La maggior parte delle volte si tratta di sfoghi un po’ troppo coloriti che però possono metterci davvero nei guai.

Ci sono infatti guai per chi utilizza questa funzione di WhatsApp senza sapere che rischia il penale; a deciderlo la Corte di Cassazione.

Attenzione a questa funzione: il fatto e le motivazioni

A quanto pare scrivere frasi offensive rivolte ad una persona sul proprio stato di WhatsApp costituisce reato di diffamazione.

La pronuncia della Corte di Cassazione risale al luglio scorso e si riferisce ad un caso specifico avvenuto a Caltanissetta.

L’imputato sosteneva che non ci fossero prove del fatto che gli insulti fossero rivolti in modo specifico alla persona in questione.

La difesa dell’uomo ha inoltre sostenuto che molti dei contatti potrebbero non aver avuto l’applicazione di messaggistica più famosa al Mondo installata nel telefono.

Per questo difficilmente altri utenti avrebbero potuto leggere quanto scritto dall’imputato.

Una difesa piuttosto debole che infatti si è scontrata col muro della Corte di Cassazione che ha dichiarato l’uomo colpevole del reato di diffamazione.

Uno “sfogo” che è costato all’imputato 3.000 euro di risarcimento ed il pagamento delle spese legali.

Per questo d’ora in poi sarà ancora più opportuno “lavare i panni sporchi in famiglia”.

Approfondimento

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