IVA, ma quanto mi costi? Non stiamo parlando della tre volte vincitrice del Festival di Sanremo, ma dell’imposta sul valore aggiunto, la cui introduzione internazionale risale al 1968. La tassa invisibile per eccellenza, quella cioè che paghiamo senza neanche accorgercene, è una cosiddetta “tassa indiretta”, la cui applicazione non è universale, ma basata solo sull’effettiva realizzazione di una transazione economica. In Italia, si sa, ci piace fare le cose in modo leggermente diverso che nel resto d’Europa e del mondo, e così siamo arrivati al 2025 con non una, non due, ma ben 5 applicazioni diverse dell’IVA, una situazione che non ha nessun riscontro fuori dai confini nazionali. Perché succede? Scopriamolo insieme.
La storia di una piccola tassa divenuta fardello
C’era una volta l’IVA del 1973, agli albori della crisi petrolifera, negli anni dell’austerity e di ogni genere di problema che avrebbe man mano eroso la poderosa crescita economica italiana del dopoguerra. Dal 1° gennaio di quell’anno, l’aliquota ordinaria IVA applicata ai consumi fu del 12%. In pratica, un prodotto dal costo di 100.000 lire avrebbe portato, senza intermediari, 12.000 lire nelle casse dello Stato, e 88.000 in quelle del venditore.
L’aliquota, però, era destinata ad aumentare: lo fece una prima volta dopo 4 anni, passando al 14% nel 1977, e ancora una volta nel 1980 (prima al 15%, poi riportata al 14% e di nuovo al 15% nel 1981), nel 1982 (18%), nel 1988 (19%). Nel 1997 sforò per la prima volta il muro psicologico del 20%, con ulteriori 2 adeguamenti avvenuti nel 2011 e 2013, fino al 22% attuale.
Magra consolazione, l’Italia ha un’IVA minore che in molti altri paesi europei. A titolo d’esempio, ecco le aliquote generali applicate dai nostri vicini:
- Danimarca, Norvegia e Svezia: 25%
- Grecia, Islandae Finlandia: 24%
- Portogallo, Polonia e Irlanda: 23%
C’è ovviamente chi fa “meglio”: in Germania l’aliquota base è del 19%, in Francia e Regno Unito del 20% (così come in Ucraina e Marocco), in Spagna del 21%. Ma c’è anche chi fa molto peggio, come l’incredibile 42% di IVA del Brasile. Il dato include, infatti, un 12% di tassa sui prodotti industriali da pagare a livello federale, un 25% di tassa statale di circolazione dei beni e un ulteriore 5% di tassa riscossa dai comuni.
Aliquote IVA in Italia: perché ce ne sono così tante?
Nell’applicazione di aliquote IVA ridotte, spesso alcuni stati tengono conto di caratteristiche geografiche o sociali. È il caso, ancora una volta, della Spagna che per le Isole Canarie ha una tassazione agevolata che porta l’aliquota standard al 6,5%, e quelle ridotte addirittura fino a zero. Succede anche in Portogallo, con Madeira e le Isole Azzorre. In altri paesi, come l’Italia, l’IVA ridotta riguarda invece beni o servizi specifici.
Ecco quali sono i vari scaglioni che si applicano nel nostro paese:
- 0% per l’esportazione (abituale) di energia elettrica;
- 4% per beni alimentari di prima necessità (pane, latte, olio ecc.), stampa e libri, fertilizzanti e semi e per l’abbattimento delle barriere architettoniche;
- 5% per le prestazioni sociali, sanitarie ed educative, ma anche per tartufo ed erbe aromatiche
- 10% per prodotti alimentari non primari o lavorati (carne, uova, acqua in bottiglia)
- 22% per tutti gli altri i beni di consumo, dall’abbigliamento all’arredamento, fino alle automobili
Alcune differenze, come quella tra le erbe aromatiche e il resto dei beni alimentari, non è normalizzata e potrebbe apparire a tratti incomprensibile. È anche il caso dei prodotti per l’igiene femminile, come gli assorbenti, a cui si applica l’aliquota del 10% nonostante fosse stata fatta una sperimentazione al 5% dal governo Meloni, dopo l’ulteriore abbassamento dal 22 al 10% deciso dal governo Draghi.
Nel resto del mondo, gli assorbenti e gli altri prodotti per l’igiene delle donne vanno da un’IVA al 27% in Ungheria (caso limite), fino allo 0% di Regno Unito e Irlanda, dove addirittura in Scozia avviene la distribuzione gratuita da parte del Governo.