Un rischio che i policy maker dell’Unione non dovrebbero proprio correre

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Un recente paper dell’OCSE, realizzato dai ricercatori Camilla Andretta, Irene Brunetti e Anna Rosso, intitolato “Productivity and human capital: the Italian case”, analizza l’impatto della struttura proprietaria nelle società italiane sulla produttività del capitale umano, concludendo che esiste una forte relazione tra il livello di skills e di esperienza dei lavoratori e il loro livello di produttività.

Si tratta dell’ennesimo, lodevole tentativo, di fornire un contributo scientifico ed empirico al problema della misurazione della produttività, una delle grandezze più difficilmente misurabili in macroeconomia.

Il problema della misurazione della produttività dei fattori produttivi non è soltanto una questione accademica. La variabile produttività è, infatti, utilizzata pervasivamente nel policy making e detiene un ruolo dirimente nel processo di programmazione delle economie nazionali.

Un rischio che i policy maker dell’Unione non dovrebbero proprio correre

L’esempio più lampante dell’utilizzo della misurazione della produttività nel policy making lo si rileva nel modello conosciuto come “Potential Output” (PO), utilizzato dalla Commissione Europea per stimare la produzione potenziale degli stati membri, una grandezza che rientra nel calcolo del famoso “output gap” e che è alla base di quella “contabilità strutturale” sulla base della quale sono calcolate le variabili di sostenibilità delle finanze pubbliche dell’Unione Europea, in particolare deficit e debito. Il calcolo del PIL potenziale, infatti, è fatto stimando, tra le altre cose, la produttività totale dei fattori (PTF), attraverso sofisticate e opinabili tecniche econometriche di filtrazione dei dati. Si tratta, per definizione, di stime che, come tali, sono caratterizzate da errori e limiti metodologici. Eppure, è proprio sulla base di quelle stime imperfette e della “contabilità strutturale” che si decidono gli obiettivi di finanza pubblica (e non solo) di tutti gli Stati membri dell’Unione.

Si sta discutendo tanto, in questo periodo storico particolare, di come riformare il Patto di stabilità e crescita, il documento che contiene tutte le regole di bilancio che gli Stati membri sono tenuti a rispettare, al fine di avere delle finanze pubbliche sostenibili. Numerose proposte sono già state presentate a riguardo finora. Sarebbe auspicabile che queste, tra le altre cose, prevedano il radicale accantonamento di tutte le regole di bilancio basate sulla “contabilità strutturale”, sostituendole con grandezze, invece, di natura prettamente finanziaria, direttamente osservabili e che siano il più possibile scevre da problematiche di stima e dispute accademiche di vario tipo. Far dipendere il destino delle principali economie occidentali da teorie macroeconomiche discutibili, da un tipo di contabilità, come quella strutturale, opinabile e per nulla osservabile è, infatti, un rischio che i policy maker dell’Unione non dovrebbero proprio correre.

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