Situazioni di perdita, per più periodi d’imposta, sono sintomatiche di condotte antieconomiche a sospetto di evasione

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Situazioni di perdita, per più periodi d’imposta, sono sintomatiche di condotte antieconomiche a sospetto di evasione. Studiamo il caso.

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 16749 del 14/06/2021, ha affermato rilevanti principi in tema di accertamento per sospetta antieconomicità dell’attività imprenditoriale. Nella specie, la Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso della contribuente, esercente attività di costruzione di edifici, con sentenza poi confermata anche in appello. L’Agenzia proponeva ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, che aveva ritenuto che l’antieconomicità della gestione imprenditoriale non giustificasse l’emissione dell’atto impositivo.

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La decisione

Secondo la Suprema Corte, la censura era fondata. Evidenziano i giudici che la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo. In particolare qualora la contabilità possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto contrastante con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità. Rileva la Corte che è infatti in tal caso consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate. E desumere, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi.

La grave incongruità o abnormità del dato economico esposto in dichiarazione priva infatti le stesse scritture contabili di qualsiasi attendibilità. Come già evidenziato dalla giurisprudenza della Corte, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari redditi irrisori o in perdita costante costituisce una condotta commerciale anomala. Pertanto, situazioni di perdita, per più periodi d’imposta, sono sintomatiche di condotte antieconomiche a sospetto di evasione fiscale.

Conclusioni

Applicando tali principi al caso in esame, la Corte rilevava che la società, irragionevolmente, anziché ottenere un margine di guadagno, vendeva sottocosto. E, per altro verso, applicava una percentuale di ricarico sui prodotti venduti addirittura nulla, inidonea a consentire un pur esiguo margine di guadagno. Poi ancora, conseguiva ricavi inferiori ai costi sostenuti, contrariamente ai criteri di ragionevolezza ed economicità che devono logicamente informare l’attività commerciale.

E, a causa di tutto ciò, mostrava un risultato di esercizio persistentemente contrassegnato da una perdita sul conto economico. In un tale contesto, pertanto, secondo la Cassazione, bene aveva fatto l’Ufficio a dubitare della veridicità dei dati dichiarati. Anche considerato che, una volta verificata l’impossibilità di conseguire un margine operativo netto positivo, era anche controproducente, per l’imprenditore, proseguire un’attività in perdita. Attività che, in condizioni “normali”, sarebbe stata del resto costretta ad uscire dal mercato. Ed era dunque legittimo concludere che l’incongruenza fosse soltanto apparente e che dietro ad essa si celasse, in realtà, una diversa realtà e capacità contributiva.

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