Si farà un Governo? Quale futuro per l’Italia dopo le elezioni?

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I NUMERI NON SONO UN’OPINIONE: NE’ PER IL GOVERNO, NE’ PER I CONTI PUBBLICI.

VERSO UN CHIARIMENTO DEGLI SCENARI POST ELETTORALI.

MA QUALI CONSEGUENZE SUGLI SCENARI ECONOMICO-FINANZIARI?

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Ieri si è tenuta un’importante riunione politica, quella del  PD dopo la sconfitta elettorale.

Dalla direzione sono infatti emerse indicazioni molto chiare sulla decisioni relative al prossimo governo: il PD ha perso ed andrà all’opposizione.

Come noto, solo la componente che fa capo al governatore Emiliano sarebbe disponibile a sostenere un governo 5 stelle, ed anche se fosse, mancherebbero completamente i numeri per formare una maggioranza.

Il destino delle legislatura è quindi già segnato?

Qualche analista ha anche avanzato l’ipotesi, a questo punto, di un governo di minoranza, cioè non basato sulla maggioranza relativa del voti delle camere.

A tale riguardo, va infatti ricordata una serie di meccanismi istituzionali.

Intanto, è cambiato il regolamento del senato, reso uguale a quello della camera, nel senso che prima della riforma, un voto di astensione al senato equivaleva a voto contrario, ragion per cui per astenersi occorreva uscire dall’aula.

Ora, invece, anche al senato il voto di astensione equivale ad astensione, e basterà non votare, senza che questo significhi voto contrario, il che agevola sicuramente il voto di astensione.

Occorre poi ricordare che il governo, per ottenere la fiducia, non deve raggiungere il 50 per cento più uno degli aventi diritto, cioè dei seggi (maggioranza assoluta), gli basta raggiungere la maggioranza semplice (50 per cento più uno dei votanti).

Per questo si parla di governo di minoranza, quando cioè la maggioranza semplice non corrisponde alla maggioranza assoluta, ma si basa non sul voto favorevole, ma sul voto non contrario della maggioranza presente in aula.

Ovviamente un governo di questo tipo non ha vita facile, e basta qualche assenza su provvedimenti importanti, specie quelli su cui l’esecutivo abbia posto la fiducia, che il governo rischierebbe, ad ogni sospir di vento, di cadere.

Ma, a prescindere dalla precarietà di un tale governo, occorre comunque ricordare che in Italia vi sono stati anche esempi in tal senso, come il governo Andreotti, basato sull’astensione del pci.

Però, anche a voler formulare una ipotesi in tal senso, ovviamente più facile a realizzarsi, vista l’attuale distribuzione dei seggi parlamentari, dobbiamo domandarci quanto sia concreta una siffatta possibilità.

Ieri il PD ha appunto chiarito il suo ruolo, il che rende quanto meno improbabile una ipotesi di questo tipo.

Soprattutto considerando un altro attore uscito vincitore dalla scena politica, Salvini, che ha chiaramente ribadito la contrarietà a condizionamenti di un certo tipo e quindi a sostenere un governo diverso dal centrodestra.

E, da parte sua, certo anche il movimento 5 stelle avrebbe non poche difficoltà a chiarire al proprio elettorato un voto che favorisca la nascita di un governo del centrodestra, in altri termini difficile pensare anche solo ad un suo astensionismo verso altre formazioni politiche.

Non resta che l’ipotesi, chiamiamola come vogliamo, del governo istituzionale, di transizione, tecnico, del presidente, e chi più ne ha, più ne metta.

In altri termini, un governo in cui le forze politiche forse neppure entrano, ma composto di tecnici, o comunque di personalità super partes, per consentire una transizione verso una nuova legge elettorale.

Ma anche questa ipotesi sarebbe scarsamente probabile.

Infatti anche questo governo dovrebbe comunque poter contare su certi voti e quanto meno sull’astensione di un certo numero di parlamentari.

Ma già il centro destra, Salvini in testa, pare contrario a tale ipotesi, il pd già ha definito il suo ruolo di opposizione verso qualsiasi governo, e anche fosse, ovviamente anche i numeri dei 5 stelle non lo supporterebbero.

Certo, sino all’ultimo minuto, se si presentasse in parlamento, potrebbe sperare nei singoli parlamentari che, non partecipando al voto, o astenendosi, potrebbero favorirne la nascita, come esecutivo di minoranza.

Ma quale respiro politico potrebbe avere un siffatto esecutivo?

Ogni confronto con passate esperienze di esecutivi di minoranza, in particolare con il governo Andreotti, non sarebbe fondato, perché un conto è un astensionismo basato sulla decisione politica della direzione di un partito, ben altra situazione è il poter contare solo sulla decisione di singoli parlamentari.

Pertanto, a mio modesto avviso, si rende ancora più probabile il ricorso ad una nuova tornata elettorale, che praticamente assolverebbe alla stessa funzione di un’elezione con doppio turno di ballottaggio tra i due maggiori eletti del primo turno.

Infatti è evidente che ormai la contesa, i giochi, come si suol dire, saranno tra 5 stelle e centrodestra, e una nuova tornata elettorale dovrebbe spingere gli elettori a scegliere tra i due, dando quella chiara indicazione di maggioranza, attualmente assente.

Lo stesso effetto, appunto, di un secondo turno alla francese.

Ma perché mi sono soffermato su tali scenari?

Molto semplicemente, perché questi impatteranno non poco sugli equilibri economico-finanziari italiani.

Mentre i due principali contendenti alla guida del governo, centrodestra e 5 stelle, stanno discutendo appunto su chi andrà al governo, i conti pubblici, sotto stretta osservanza europea, richiederanno circa 30 miliardi di nuove entrate, o minori uscite, nelle casse pubbliche, per evitare aumenti di carburanti ed iva (clausole di salvaguardia).

E certo un’iva al 25 per cento, certo non agevolerebbe la commercializzazione dei prodotti italiani, in altri termini il pil, avendo un potenziale effetto recessivo non da poco.

Pertanto, considerando i programmi elettorali dei due possibili competitors al governo, dobbiamo valutare che sarebbero necessari questi circa 30 miliardi di copertura, in aggiunta a quelli necessari per mandare in porto le promesse elettorali.

Consideriamo i due principali punti programmatici di 5 stelle e centro destra.

Il 5 stelle, sotto molteplici profili, si va sempre più profilando come una novella balena bianca, come si direbbe in gergo politico da prima repubblica, una nuova democrazia cristiana (questa volta senza però connotati religiosi, ma più laici) in cui sono presenti diverse correnti ma, sopratutto, in cui vige una certa prevalenza di politiche neo assistenzialistiche.

Ed ecco, quindi, che viene soprattutto identificato come il movimento favorevole al reddito di cittadinanza.

Anche ammettendo che gli uffici per l’impiego vengano riformati e che si generino molte più occasioni di lavoro rispetto alla situazione attuale (condizione che, in caso di 3 mancate scelte del beneficiario del reddito, ne prevederebbe il venir meno), comunque vi sarebbero molte persone che ne potrebbero beneficiare, con evidente aggravio dei conti pubblici.

Dove si troverebbero i soldi necessari, quindi, per coprire i 30 miliardi, già necessari, unitamente a quelli indispensabili per la copertura finanziaria del reddito di cittadinanza?

Non si sa, o quanto meno, i 5 stelle non l’hanno chiarito, e sarà forse anche per questo motivo che Di Maio già ha avanzato alcune candidature di possibili ministri, di natura tecnica, sperando probabilmente che siano loro a sbrogliare la matassa delle promesse elettorali, trovando concrete soluzioni di fattibilità.

Ma probabilmente confida su un rilancio economico, conseguente al maggior reddito disponibile, da cui anche una maggior base imponibile, analogamente a quanti confidano nella flat tax.

E veniamo al centro destra.

Qui campeggia infatti la flat tax, ma quanto meno abbiamo qualche spiegazione in più sotto il profilo macroeconomico.

Il ragionamento seguito è sostanzialmente il seguente: una riduzione delle aliquote, ed anzi, una sola aliquota, dovrebbe favorire una maggior propensione agli investimenti ed ai consumi, componenti fondamentali della base imponibile del paese.

Da cui la conseguenza anche di maggiori introiti fiscali.

Quindi più sviluppo, più entrate per le casse pubbliche, ed una piena copertura della flat tax stessa e di altre esigenze di bilancio.

Intanto, però, occorre osservare che anche se questo fosse vero, necessita di un certo tempo la produzione di tutti questi possibili risultati, ed intanto le casse pubbliche non aspettano. Il che peraltro vale anche per i potenziali effetti del reddito di cittadinanza.

Non solo.

E’ sicuramente vero, come evidenziato da studi di diversi economisti, da Keynes a Laffer, che tali effetti siano possibili (possibili, non certi), ma dipendono soprattutto da una variabile, cioè la propensione a trasformare una percentuale del risparmio fiscale (o del maggior reddito disponibile) in investimenti e consumi, variabile la cui misura può certo variare da paese a paese, o da periodo a periodo nello stesso paese.

Pertanto non vi è alcuna sicurezza che gli effetti vi saranno o nella misura prevista.

E se qualcosa nel meccanismo si inceppa, gli auspicati effetti quanto meno tarderanno a verificarsi.

In questo caso, cosa succederebbe?

Forse un ulteriore aumento delle imposte di bollo sui depositi dei titoli bancari, come già fece un certo Tremonti?

Ma non era il ministro economico di un governo che voleva, se non abolire, quanto meno ridurre l’imposizione fiscale?

In effetti la risposta già l’abbiamo: aumento di carburanti e di iva.

Insomma, da queste lezioni storiche ed economiche, possiamo forse anche pensare che magari i politici ci abbiano detto la verità, e presumere la loro buona fede.

Peccato che spesso questa sia solo una parte della possibile realtà futura.

Non necessariamente perché il ceto politico abbia voluto nasconderci qualcosa, ma anche solo perché il medesimo non ha tenuto conto di un’altra parte della realtà, che pure bisognava mettere in conto.

Comunque vada, alla fine più che il colore politico di questo o quel governo, più che i propositi o le promesse elettorali, conteranno la realtà economica e finanziaria e sarebbe stato quanto meno prudente proporre agli italiani, in fase elettorale, un piano B alternativo ad aumento di accise e di iva, invece di confidare ciecamente nella riuscita dei propri propositi elettorali e programmatici.

 

 

 

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