Scenari tra obiettivi centrati e analisi tecnica e fondamentale

ProiezionidiBorsa

INTERVISTA A GIAN PIERO TURLETTI

AUTORE DI

MAGIC BOX

PLT

Alcuni analisti ritengono che sia possibile parlare di bolla speculativa sui mercati azionari internazionali, soprattutto considerando certi multipli come il p/e.

Lei che ne pensa?

Occorre fare chiarezza. I multipli di borsa, soprattutto il p/e, o rapporto prezzi/utili, non vanno, a mio avviso, valutati semplicemente sulla base delle medie storiche.

Questo direi che è un metodo superato di valutazione, proprio perché diversi contesti economici comportano multipli diversi.

Non a caso, le medie sono il frutto di quanto verificatosi in passato, in contesti economici che possono essere anche molto diversi, rispetto a quelli attuali.

Pertanto potrebbe essere decisamente fuorviante ritenere i mercati in bolla, solo perché le medie si discostano dagli attuali livelli.

Come fare, quindi, per superare tale impasse analitica?

Occorre usare modelli econometrici di tipo analitico, che valutino i multipli di mercato in relazione a determinati parametri economici.

In particolare, proprio con riferimento al p/e, è da tempo utilizzato il cosiddetto modello fed, così denominato per essere usato, in via ufficiosa, dalla fed statunitense.

Tale modello mette in relazione il p/e di equilibrio o fair value, con i tassi, tramite la seguente equazione: p/e = 1/i.

Dove i rappresenta il tasso dei titoli di stato governativi a 10 anni.

Praticamente, si tratta di dividere il numero 1 per questo tasso, espresso in forma decimale.

Pertanto, ad esempio, se il tasso fosse del 10 per cento, avremmo 1/0,1, da cui risulterebbe che il p/e di equilibrio è pari a 10.

Questo modello econometrico è stato soggetto a critiche?

Come ogni modello, anche quello della Fed ha prestato il fianco a valutazioni critiche.

In particolare, alcuni hanno criticato il fatto di non contemplare un premio per il maggior rischio azionario, rispetto ad un investimento in titoli considerati privi di rischio, come i titoli di stato.

Personalmente, ritengo tali critiche infondate.

Il modello, infatti, si applica soprattutto per la stima degli indici azionari che, a ben vedere, presentano sotto molteplici aspetti un rischio non superiore a quello di chi investe in titoli di stato, anzi.

Infatti un indice non può fallire, neppure se andasse in default una parte dei titoli azionari di cui si compone.

Infatti, se questo accadesse, nel calcolo dell’indice si sostituirebbero i titoli non più in possesso dei requisiti per farne parte, con altri.

Praticamente, un indice di borsa non può fallire, a differenza di singoli titoli quotati, o di un emittente governativo.

Per questo, ed altri motivi, su cui non mi soffermo, occorre quindi dire che il confronto consentito dal modello fed non è tra titoli azionari rischiosi e titoli privi di rischio, ma più semplicemente tra comparti diversi. Uno quello azionario, l’altro rappresentato dai titoli di stato.

Pertanto, non ha senso applicare un premio per il rischio, cosa che ha senso, invece, se considerassimo singoli titoli azionari.

Il tema è complesso, e rischia di portare lontano.

Mi fermo quindi qui, anche per evitare lunghe disquisizioni tecniche.

E sulla base di questo modello, possiamo condividere l’opinione di analisti, che vedono in bolla in particolare il mercato USA?

Questa opinione non è, a mio avviso, condivisibile.

Infatti i due comparti, azionario ed obbligazionario, sarebbero in equilibrio se i titoli di stato avessero un rendimento attorno al 4 per cento.

Tale dato si ricava dall’inverso del p/e, cioè dal rapporto utile/prezzo.

Attualmente, sulla base del consensus di un panel di analisti aggiornato al 30 giugno scorso, il p/e del Dow Jones si attesta attorno ad un valore di 25, il che equivale, appunto, ad un rendimento del 4 per cento.

Infatti se dividiamo 1 per 25, appunto l’inverso del p/e, otteniamo 4 per cento.

Ma in caso di aumento di tassi, come reagirebbero i mercati?

Probabilmente, i mercati andrebbero al ribasso, ma tali ribassi corrisponderebbero, fino a che i treasury bond non raggiungessero un rendimento del 4 per cento, ad una situazione di sottovalutazione.

Dopo un po’ le mani forti se ne accorgerebbero e riprenderebbero gli acquisti.

E non pare che l’attuale situazione statunitense sia tale da portare ad un rialzo dei tassi di tale entità.

Una delle realtà economiche di questi tempi è data dai tassi negativi.

Ma il modello fed potrebbe continuare ad essere applicato anche con tassi negativi?

Certamente sì.

Intanto perché non siamo ancora arrivati a tassi negativi sui bond governativi decennali.

Inoltre, il modello fed si basa su un’equivalenza tra rendimenti del comparto azionario e dei bond governativi.

Evidentemente, fin tanto che sussiste un utile medio di borsa positivo, se il comparto dei bond avesse rendimento negativo, questo significherebbe che converrebbe investire in borsa indefinitamente.

Infatti, se dividiamo un qualunque numero per zero, otteniamo che l’operazione è impossibile, e se dividiamo qualunque numero per un numero vicino allo zero, troviamo risultati elevatissimi in termini di p/e.

Questo significa che con tassi negativi, il modello comporta che converrebbe investire in borsa, fin tanto che i rendimenti dei bond non ritornassero sullo stesso livello del ratio utile/prezzo di borsa.

Ma applicando questo metodo ai mercati USA, quale sarebbe il p/e di equilibrio, ai livelli dei tassi attuali?

L’attuale livello del decennale USA si attesa intorno a 1, 694 per cento.

Pertanto dividendo 1 per 0,01694, otteniamo 59,03, che è un livello decisamente superiore al p/e attuale.

Cos’altro potrebbe determinare un rilevante ribasso di borsa?

L’altro fondamentale elemento considerato nel modello fed sono gli utili medi degli indici.

E’ quindi evidente che un eventuale ribasso potrebbe collegarsi ad una revisione al ribasso della stima degli utili.

In tal senso, sarà importante monitorare le stime di consensus trimestrale al 30 settembre.

Passiamo all’analisi tecnica: ancora una volta obiettivi centrati con Magic box?

Oramai non è più una novità.

Nel precedente articolo, ad esempio, avevo indicato in 16180 il target di breve del ftse mib.

E qual’ è stato il minimo raggiunto?

Proprio 16180.

Anche sugli altri indici, sono stati al momento raggiunti livelli prossimi, ancora una volta, ai target di breve.

In particolare è stato centrato quello sul Dow Jones, mentre l’Eurostoxx ha raggiunto una quotazione prossima al target stimato.

Sul Dax, pur potendosi formulare, in caso di estensione ribassista, un target di medio inferiore, possiamo però dire che nel breve il target principale si colloca a una distanza ancora una volta prossima alle attuali quotazioni.

La prossimità/coincidenza delle quotazioni raggiunte con i target stimati, peraltro in coincidenza/prossimità con il passaggio di rilevanti trend lines supportive, evidenzia l’importanza dei livelli raggiunti.

Sui medesimi, quindi, potrebbe ingenerarsi una ripartenza del trend rialzista.

Viceversa, un confermato cedimento proietterà gli indici verso obiettivi inferiori, sui quali, in tal caso, non mancheranno occasioni di futuro approfondimento.

 

 

 

 

 

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