Rapporti tra il sequestro giudiziario d’azienda e fallimento: la misura cautelare non esclude la fallibilità della società

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Gli strumenti processuali previsti dal codice di procedura civile possono essere utilizzati cumulativamente dall’avente diritto, non essendo necessariamente alternativi tra loro.

Uno di essi è il sequestro, esperibile sia in sede civile che penale, nelle sue specifiche tipizzazioni: giudiziario o conservativo, rispondenti ciascuna ad un precipuo scopo.

In tutte le sue vesti, il sequestro, se autorizzato dal Giudice, si concretizza ed instaura un procedimento cautelare, connesso a quello di merito, già pendente o da incardinare.

Se i rapporti tra giudizio cautelare e di merito sono chiaramente disciplinati dal codice di rito, non altrettanto può affermarsi circa la relazione tra declaratoria di fallimento e sequestro di beni d’azienda.

Il tema è stato affrontato in una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. Civ. Sez. I, 11.06.2020 n. 11254), chiamata a pronunciarsi sul ricorso per cassazione presentato da società sottoposta a fallimento, successivamente al sequestro giudiziario (in sede civile) di ramo d’azienda.

Il ricorso è basato su due principali motivi: 1) La ritenuta non fallibilità di società di capitali sottoposta a sequestro giudiziario 2) L’irregolarità del contraddittorio, per mancata partecipazione alla procedura fallimentare del custode giudiziario.

Secondo la sentenza citata, di rigetto del ricorso esperito, entrambi i motivi sono destituiti di fondamento giuridico, per un duplice ordine di ragioni, che vale la pena di esaminare.

Rapporti tra il sequestro giudiziario d’azienda e fallimento: la misura cautelare non esclude la fallibilità della società

In ordine al primo motivo, La Corte afferma l’irrilevanza della censura per cui la “Fallita” perderebbe la sua   qualifica di imprenditore commerciale, a seguito della mera sottoposizione a sequestro, rilevando, piuttosto, gli elementi oggettivi dello stato d’insolvenza. La ratio sottesa a tale assunto, evidentemente, è da ravvisarsi nella confusione che il ricorrente fa tra presupposti oggettivi e soggettivi di fallibilità.

Segnatamente, secondo l’Organo di Nomofilachia, la mera sottoposizione a sequestro non scalfisce la qualifica di imprenditore commerciale, in quanto tale soggettivamente fallibile. Diversamente, la contestazione relativa all’ an debeatur, ovvero ai debiti contratti dall’impresa, se puntuale e circostanziata, varrebbe ad escludere la fallibilità, per insussistenza dei presupposti oggettivi del fallimento. Al riguardo, la Corte non manca di precisare che deve trattarsi di una contestazione non generica e non concretantesi in una mera allegazione, dovendo, appunto, il ricorrente provare e non semplicemente allegare l’assenza dello stato d’insolvenza. In relazione ad ulteriore ma connesso profilo, viene esclusa qualsiasi interferenza tra il giudizio cautelare e quello fallimentare tout court.

In particolare, secondo i Giudici di legittimità, la società, titolare d’azienda che, in ragione di un provvedimento di sequestro, venga privata della possibilità di esercitare l’attività stessa, non diventa, perciò soltanto, soggetto non fallibile.

La non fallibilità sotto il profilo dell’oggettiva valutazione dello stato d’insolvenza

La non fallibilità va riguardata sotto il profilo dell’oggettiva valutazione dello stato d’insolvenza, quale presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento. Nel merito, la sentenza in commento sposa l’orientamento giurisprudenziale inaugurato dalle Sezioni Unite della Cassazione Civile (Cass. Civ. SU, 13.03.2001), secondo il quale: lo stato d’insolvenza si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale e non transitoria, a soddisfare le proprie obbligazioni, a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie. Ne discende che le società commerciali, costituite ai sensi del codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall’effettivo esercizio di tale attività, ovvero a prescindere dal vincolo imposto da un sequestro dei beni aziendali, qualora ne venga dichiarato lo stato d’insolvenza, nel senso sopra precisato ed esso non venga contestato in modo specifico, in corso di causa.

Nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte, era stato accertato uno stato d’insolvenza per milioni di euro, legato ad attività parallele di tipo mafioso; non era stata svolta una contestazione del debito, se non in modo generico o in forma di mera allegazione. Pertanto, alcun pregio è stato attribuito alla censura, sia pur apprezzabile sotto il profilo giuridico in senso stretto, secondo la quale si sarebbe potuti pervenire alla declaratoria di fallimento di società, per un’attività mai esercitata, a causa del sequestro giudiziario di ramo d’azienda.

Lo stato d’insolvenza, presupposto della dichiarazione di fallimento, per vero, era relativo all’attività (illecita) svolta prima dell’autorizzazione della misura cautelare.

Un caso esemplare di necessaria moltiplicazione di giudizi, senza che ciò si sostanzi in un abuso di strumenti processuali, in linea con i principi costituzionali del giusto processo e del contraddittorio mutuati dall’art. 111 Cost.

In relazione al secondo motivo di censura, oggetto del ricorso per cassazione, afferente alla ritenuta violazione del contraddittorio, per mancata partecipazione al giudizio del custode giudiziario, l’infondatezza è dichiarata dalla Corte di diritto, in via consequenziale.

Segnatamente, secondo i Giudici di legittimità, la dichiarazione di fallimento non comporta l’estinzione della società, ma solo la liquidazione dei beni, con conseguente legittimazione dell’organo di rappresentanza (CDA) a difendere gli interessi dell’ente nell’ambito della procedura fallimentare.

Per concludere sull’argomento riguardante i rapporti tra il sequestro giudiziario d’azienda e il fallimento, deve escludersi, quindi, una duplicazione di ruoli tra amministratore e custode giudiziario, poiché, nel giudizio per la dichiarazione di fallimento, la società sta in giudizio con il proprio organo rappresentativo. In ultima analisi, il custode dell’azienda sequestrata non è litisconsorte ovvero interlocutore necessario, nell’ambito della procedura fallimentare dell’azienda stessa, potendo la società, ancora “in vita”, stare in giudizio per mezzo dei propri rappresentanti (organo amministrativo.)

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