Nuovo DEF, cartelle fiscali e garanzia di solvibilità statale

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A cura di Gian Piero Turletti, autore di “Magic Box” e “PLT

Il governo italiano pare aver trovato una quadra sul Def, rinunciando a mantenere il deficit/pil al 2,4 per cento per 3 anni consecutivi.

In base ai nuovi parametri, effettivamente il rapporto debito/pil può essere proiettato in una parabola discretamente discendente, come hanno notato, evidentemente, anche i mercati.

Questo non significa che sia tutto risolto, e sia l’UE che i mercati possono sempre temere che con le prossime finanziarie i numeri non vengano, comunque, rispettati.

Almeno per il momento, possiamo però dire che una certa rassicurazione è giunta e quindi ci si accontenta.

Ma la prossima finanziaria, di cui il def è solo un quadro di riferimento generale, pone anche altre questioni.

Entrando nel merito delle diverse problematiche, credo sia particolarmente interessante quella della cosiddetta pace fiscale.

A quanto risulta dalle ultime indiscrezioni, non si tratterebbe di un condono sui debiti in essere con il fisco, ma di una sorta di transazione su quanto oggetto di ricorso giurisdizionale.

Si pone, quindi, una questione non di poco conto, per tutti coloro che hanno un contenzioso aperto con il fisco.

Conviene aderire?

Ovviamente, non esiste una risposta valida per tutti, poiché non si può prescindere dalla specifica situazione giuridica del singolo caso.

Altrettanto ovviamente, se si ritiene di poter vincere la causa in corso, è forse opportuno non giovarsi della cosiddetta pace fiscale, ma occorre comunque considerare che solitamente, anche se il contribuente ha vinto nei primi gradi di giudizio, quelli di competenza delle commissioni tributarie, solitamente il fisco non demorde, e ricorre fino alla cassazione.

Pertanto, è opportuna soprattutto, nel singolo caso, un’attenta disamina della giurisprudenza di quest’ultima, proprio perché sarà questa corte a deliberare la sentenza finale.

Esistono, non a caso, nel nostro ordinamento giuridico, diverse interpretazioni della normativa fiscale favorevoli al contribuente da parte delle commissioni di primo e secondo grado, poi sovvertite da una ben diversa applicazione interpretativa appunto da parte della nostra corte suprema.

Come non ricordare, ad esempio, la famosa questione delle firme sugli atti di accertamento da parte di personale senza qualifica dirigenziale.

In virtù di specifica norma sul punto, che parlava espressamente di nullità degli atti, furono vinti numerosi ricorsi presentati dai contribuenti in primo e secondo grado, durante il periodo in cui direttore generale dell’agenzia delle entrate era Rossella Orlandi.

Ma l’agenzia non demorse, e ricorse in cassazione, dove vinse.

Era successo che questa corte aveva fatto prevalere il principio di conservazione dell’atto giuridico, nonostante una norma prevedesse qualcosa di esattamente opposto.

A mio avviso, una palese violazione dei principi che dovrebbero informare uno stato di diritto, ma tant’è.

Proprio anche questa vicenda suggerisce di portare avanti il ricorso sino alla cassazione, da parte del contribuente, se ed in quanto vi sia un ben preciso orientamento favorevole alle proprie tesi da parte della medesima.

Diversamente, sarebbe preferibile, a mio avviso, giovarsi della transazione offerta dalla cosiddetta pace fiscale.

Altra questione alla ribalta dell’attenzione mediatica di questi giorni, la tenuta del debito pubblico.

E qui, diciamolo chiaramente, torna in auge il famoso principio della banca centrale come garante di ultima istanza

In altri termini, solo e soltanto una forma istituzionale di garanzia, che consenta ad una banca centrale, nel caso in cui l’alternativa sia il default di un intero stato, di provvedere a stampare denaro sufficiente per ripagare il debito, potrebbe evitare il fallimento.

Anche se l’eurozona si fonda su principi diversi, questa riforma potrebbe essere adottata per casi eccezionali.

E credo che ogni singolo membro dell’eurozona non dovrebbe ragionevolmente nutrire molte rimostranze al riguardo, se l’alternativa fosse quella di vedere frantumarsi l’unione monetaria di cui fa parte, dovendo peraltro rinunciare ai crediti del proprio paese nei confronti dello stato che fallisse.

Come detto in altra occasione, questo denaro non dovrebbe essere emesso dietro correlata emissione di titoli del debito.

La banca centrale, per far quadrare i propri conti, non dovrebbe più indicare nel proprio attivo i soldi, ed al passivo un debito verso l’ente pubblico.

I soldi dovrebbero rappresentare un valore imputato direttamente alla proprietà statale, ed in deposito presso la banca.

Ma tant’è, a quanto pare in questo periodo soprattutto molti politici europei non paiono capire molto di economia, e soprattutto non sono memori dell’antico detto: attenzione a non segare il ramo su cui si è seduti.

 

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