L’aumento dei costi energetici ha giocato la parte del leone nell’aumento generalizzato dei prezzi

Federal Reserve

Lo scorso ottobre, i prezzi delle importazioni sono aumentati in Germania del +21,7% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, registrando il loro più grande aumento annuale dal gennaio 1980, secondo quanto riportato venerdì dall’Ufficio federale di statistica di Berlino. L’aumento dei costi energetici ha giocato la parte del leone nell’aumento generalizzato dei prezzi. Nel solo mese di ottobre, le importazioni di energia sono, infatti, risultate più costose del +141,0% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. La notizia dell’aumento dei prezzi all’importazione tedeschi è quasi passata inosservata sui media, che troppo spesso fanno l’errore di riportare notizie sull’inflazione soltanto quando questa riguarda i prezzi al consumo, quasi come se quella relativa ai prezzi dell’import fosse di minor importanza e non finisca per scaricarsi, prima o poi, anche sui prezzi finali.

L’aumento dei costi energetici ha giocato la parte del leone nell’aumento generalizzato dei prezzi

Quello tedesco è soltanto l’ultimo caso eclatante di una lunga serie di aumenti dei prezzi a doppia cifra che si sta osservando a livello internazionale e che sta toccando anche superpotenze economiche come Giappone e Stati Uniti. Nel paese del Sol Levante, l’inflazione all’ingrosso ha toccato, sempre nel mese di ottobre, il suo massimo livello delle ultime quattro decadi, seguendo un trend simile a quello che si sta osservando nelle fabbriche cinesi, mentre le strozzature dell’offerta e l’aumento dei costi delle materie prime stanno incominciando a minacciare i profitti delle aziende asiatiche.

La crescente pressione sui costi, associata alla debolezza dello yen che sta gonfiando il prezzo dei beni importati, si aggiunge ai già esistenti problemi economici per la terza economia mondiale, la quale sta cercando di riemerge faticosamente dal crollo dei consumi causato dalla pandemia.

Inflazione e pandemia

Anche negli Stati Uniti, l’aumento dei prezzi delle importazioni sta alimentando l’inflazione più del solito, a causa di fattori legati alla pandemia, almeno stando alle ultime rilevazioni di Liberty Street Economics. Il gruppo di ricerca della Federal Reserve Bank di New York ha recentemente scritto che un aumento del +10,0% dei prezzi delle importazioni è associato a un aumento del +2,6% dell’indice dei prezzi alla produzione, in aumento dal +1,0% che si osservava nell’epoca pre-Covid. Il maggiore impatto dei prezzi all’importazione “riflette probabilmente il fatto che gli aumenti dei prezzi in tutto il Mondo sono guidati da fattori comuni come le strozzature della catena di approvvigionamento e la domanda repressa”, hanno scritto i ricercatori.

I dati sui prezzi alla produzione osservati in tutto il mondo stanno mostrando come l’inflazione mondiale sia ormai ad un passo da quella che si è registrata negli anni Settanta, in quel decennio passato alla storia economica come quello degli “shock petroliferi”. Una situazione, quella degli anni Settanta, dovuta all’aumento esorbitante dei prezzi del petrolio che si riversò, di riflesso, sull’intera componente inflazionistica, causando fenomeni fino ad allora quasi del tutto sconosciuti come quello della “stagflazione”, una situazione economica caratterizzata de un aumento dei prezzi accompagnato da un forte calo della produzione e dell’occupazione.

Fenomeno temporaneo?

I dati dell’inflazione post-Covid non sono ancora quelli dell’inflazione stile anni Settanta ma, a quelli, stanno rapidamente e pericolosamente avvicinandosi. Tutto questo sta avvenendo nel silenzio dei banchieri centrali, soprattutto europei, che perseverano nella loro credenza che questa fiammata inflazionistica sarà solo “un fenomeno temporaneo”, mentre è ormai evidente che non lo è affatto. Ciò che colpisce maggiormente è la discrasia esistente tra il livello dei tassi d’interesse che i banchieri centrali fissarono negli anni Settanta per far fronte alla recrudescenza inflazionistica, anch’essi a doppia cifra come l’inflazione, e la stagnazione degli attuali tassi d’interesse, che sono mantenuti dai policy-maker al loro minimo storico, ovvero a livello zero, se non addirittura negativo.

In questa enorme discrasia di decisioni di politica monetaria, qualcuno evidentemente si deve essere sbagliato. Sono stati i banchieri centrali degli anni Settanta ad aver sbagliato nell’aver alzato pesantemente i tassi, o quelli attuali nel perseverare a non alzarli? Difficile, come al solito, dare una risposta, considerando che siamo ancora nel pieno di una crisi mai sperimentata finora. Ciò che è certo è che i banchieri della BCE stanno assumendosi una pesante responsabilità storica davanti ai mercati finanziari e ai cittadini. Nella speranza che il ritardo con il quale stanno perseguendo una modifica della politica monetaria in chiave restrittiva non possa costare caro alla fine, in termini di PIL, occupazione e risparmio, ai cittadini dell’eurozona.

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