In Italia si può applicare la teoria keynesiana?

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A cura di Gian Piero Turletti,

autore di Magic Box in 7 passi e di  PLT

Mentre alcuni media offrono alcune riflessioni sugli ultimi sviluppi della situazione economica internazionale, con particolare riferimento al dietrofront improvviso di Trump al G7 (che taluni preferiscono definire G6+1), la situazione economica italiana è ancora caratterizzata dal dibattito sul possibile esito di una politica neokeynesiana.

In effetti il neo ministro Tria pare, dalle ultime dichiarazioni, voler smentire l’ipotesi di politiche in deficit, ma non tutto è ancora chiaro.

Soprattutto resta indefinita la questione se il percorso di riduzione di deficit e debito dovrebbe passare da politiche di compatibilità economica dei conti con coperture iniziali, o da tentativi di spesa in deficit che poi, solo in base a quanto già abbiamo visto in precedenti analisi, grazie al moltiplicatore keynesiano dovrebbero portare ad uno sviluppo economico.

Da cui anche un possibile incremento delle entrate tributarie.

Soprattutto dobbiamo domandarci se nell’attuale situazione italiana le politiche di Keynes potrebbero avere l’effetto sperato.

In effetti, dobbiamo considerare il contesto cui si riferiva Keynes e quello attuale italiano.

Storicamente, Keynes non pensava all’attuazione di politiche di spesa pubblica in deficit in paesi troppo indebitati, ma in paesi o senza debito o con debito contenuto.

Infatti, nel caso in cui una tale politica, in uno stato non troppo indebitato o senza debito, non funzioni, cioè non si metta in funzione quell’effetto moltiplicatore, di cui dicevamo, il rischio che si corre è contenuto.

La spesa in deficit produrrà un limitato livello di debito, ed anche eventuali tensioni finanziarie avranno un effetto limitato.

Certo non è la stessa cosa, evidentemente, un rialzo dell’1 per cento dei tassi sul debito pubblico, su un debito di 200 miliardi, invece che su un debito di 1300 miliardi.

In un caso l’1 per cento equivale a 2 miliardi, nell’altro caso a 13, oltre 6 volte.

E’ quindi evidente che la lezione di Keynes non si può considerare adatta a tutte le situazioni economiche.

Soprattutto nel caso italiano, dopo che nel 1981 intervenne il divorzio tra banca d’Italia e Tesoro.

Sino allora la banca d’Italia aveva l’obbligo di acquistare, a tassi ridotti rispetto al mercato, gli eventuali quantitativi di titoli di stato invenduti nelle aste, il che conteneva sicuramente parte rilevante del debito.

Ma ora, soprattutto dopo Maastricht, si può contare solo sulla fiducia dei mercati.

Pertanto, se per caso nell’equazione del moltiplicatore monetario il fattore propensione al consumo resta troppo limitato, il rischio è proprio quello di una mancata espansione della base economica.

IN questo caso l’eventuale spesa, o mancata entrata fiscale, in deficit, non sarà coperta da una maggior base imponibile, ed il debito non otrà che aumentare.

Pù precisamente, questo tipo di politica, a ben vedere, non potrebbe neppure essere definito neokeynesiano, perché non si applicherebbe ad una delle situazioni previste dallo stesso Keynes.

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