Il caro energia che si sta osservando a livello globale potrebbe costare alle finanze pubbliche italiane

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Il caro energia che si sta osservando a livello globale potrebbe costare alle finanze pubbliche italiane oltre 5 miliardi di euro nel 2021. A tale cifra potrebbe ammontare, infatti, l’intervento complessivo che il governo potrebbe essere obbligato a mettere in campo per contrastare il caro bollette in corso e per evitare così che la famiglia media italiana sia costretta, alla fine, a dover subire rincari di luce e gas stimabili attorno al +40,0% per l’energia elettrica e al +31,0% per il gas.

Un incremento a doppia cifra che per molte famiglie e imprese, ancora alle prese con i problemi finanziari legati agli effetti della pandemia, potrebbe rappresentare una spesa insostenibile.

L’impatto complessivo sulle finanze pubbliche, in particolare sul deficit, è dato dalla somma degli 1,3 miliardi di euro stanziati dall’Esecutivo già lo scorso giugno e dei 3,5 miliardi previsti nell’intervento che quasi sicuramente sarà discusso e approvato nei prossimi giorni. Una spesa miliardaria imprevista della quale il nostro bilancio pubblico avrebbe fatto volentieri a meno e che, oltre a riaprire l’annoso dibattito sulla necessità di ridurre il costo delle componenti indirette presenti in bolletta e quello della mancata liberalizzazione del settore – dovuta al continuo rinvio della cessazione del mercato tutelato – deve far riflettere sulla inutile, per chi scrive, distinzione tra inflazione “core”, quella al netto delle componenti volatili legate all’energia e agli alimentari, e “non core” (o, come dicono gli anglosassoni “headline”).

La prassi adottata dai policy-maker di suddividere l’inflazione in queste due componenti è un tentativo piuttosto maldestro di creare due inflazioni, una di serie A (quella “core”) e un’altra di serie B (quella “non core”), con l’effetto di ingenerare la credenza che la prima è più importante della seconda o, detto in altri termini, che la seconda è meno pericolosa della prima. Una distinzione che famiglie e imprese faticano a comprendere, dal momento che quello che conta per i loro portafogli è il calo del loro potere d’acquisto, indipendentemente dalle componenti che l’hanno generato.

Il caro energia che si sta osservando a livello globale potrebbe costare alle finanze pubbliche italiane

In realtà, una tale distinzione è utile, oltre che per finalità meramente statistiche, ai banchieri centrali per giustificare il mantenimento di una stance di politica monetaria eccessivamente espansiva: se l’inflazione complessiva subisce un forte aumento, e quindi sarebbe necessario un aumento dei tassi d’interesse, ma la componente core risulta più stabile, ecco allora che il mantenimento di una politica monetaria accomodante diventa giustificabile, secondo questa teoria. La Federal Reserve, per esempio, nelle sue decisioni di politica monetaria presta particolare attenzione al tasso di crescita del deflatore delle spese di consumo personale di base (PCE), che esclude i prezzi di cibo ed energia.

Nella presentazione del suo rapporto semestrale di politica monetaria al Congresso degli Stati Uniti, il Federal Reserve Board riporta le proiezioni dei partecipanti al Federal Open Market Committee sull’inflazione PCE di base, non sull’inflazione complessiva, che include tutte le voci dell’indice dei prezzi.

Il rischio del non considerare le componenti “volatili” dell’inflazione (anche sul concetto di “volatilità” di una componente inflattiva si potrebbe, tuttavia, discutere per anni!) nelle decisioni di politica monetaria, è quello che la banca centrale diventi prigioniera di una trappola semantica come quella relativa alla “temporaneità” dell’inflazione, termine del tutto abusato in questi mesi dai policy-maker per giustificare la loro mancata reazione all’impennata dei prezzi, sulla base di un non meglio identificato concetto di “temporaneo”.

Cosa significa tale aggettivo? Una settimana, un mese, due anni, un decennio? Non è dato sapere.

Senza considerare che, per definizione, qualsiasi episodio inflazionistico, ma anche non inflazionistico, è temporaneo. Il tasso d’inflazione prima o poi scende, per poi risalire: il ciclo dei prezzi è elemento ontologico dell’economia.

Quali conclusioni possiamo trarre dal rischio di incorrere in queste “trappole semantiche da policy”? Negli anni Settanta, le crisi economiche furono causate dai famosi shock petroliferi che afflissero l’economia mondiale, fino a portare alla nascita di fenomeni avversi come la “stagflazione”, una situazione economica atipica caratterizzata dalla contemporanea presenza di recessione e inflazione elevata. Che anche la componente “non core” dell’inflazione possa provocare effetti devastanti sull’economia è, quindi, un fatto storico, del quale i banchieri centrali dovrebbero tener conto. Così come dovrebbero tenere a mente che il ritardare gli interventi nella politica monetaria può costare carissimo all’economia reale e ai mercati finanziari, anche se una tale scelta risulta impopolare agli occhi dell’opinione pubblica.

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