Contratto preliminare di cessione quote sociali e rilevanza autonoma o accessoria delle pattuizioni in esso contenute, rispetto al contratto definitivo

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Contratto preliminare di cessione quote sociali e rilevanza autonoma o accessoria delle pattuizioni in esso contenute, rispetto al contratto definitivo. Studiamo il caso.

La cessione di quote sociali costituisce un negozio giuridico diffuso, per mezzo del quale vengono regolati e modificati aspetti della vita delle società. Esso, in quanto tale, è espressione della volontà delle parti, riflesso del noto principio dell’autonomia contrattuale, contemplato dalla disposizione di cui all’art. 1322 c.c. Nondimeno, resta soggetto alle regole dell’interpretazione del contratto, contenute nel Capo VI, del Titolo II “Dei contratti in generale”, di cui agli art. 1362- 1371 c.c.

La cessione, infatti, si concretizza in un contratto di vendita, secondo la “doppia formula” della sottoscrizione del preliminare, ai sensi dell’art. 1351 c.c. e del successivo definitivo.

Nella prassi, si manifesta, quindi, il problema della rilevanza da accordare alle clausole pattizie contenute nel contratto preliminare, ma non riprodotte nel successivo contratto definitivo.

Sulla questione, si segnala una recente pronuncia della Prima Sezione della Corte di Cassazione Civile, la n. 662 del giorno 11 Gennaio 2022 (Pres. Scaldaferri, Estensore Fidanzia), che rappresenta una lectio magistralis in materia di interpretazione contrattuale.

Contratto preliminare di cessione quote sociali e rilevanza autonoma o accessoria delle pattuizioni in esso contenute, rispetto al contratto definitivo

La vicenda processuale trae origine da una scrittura privata, denominata “Scrittura privata contratto preliminare di cessione quote sociali”, per mezzo della quale i quattro soci, detentori, ciascuno, del 25% delle quote, relative a due società, intendevano sciogliere i rispettivi vincoli societari.

Segnatamente, due soci intendevano acquisire l’intero capitale della società in nome collettivo e, correlativamente, cedere le loro quote della S.r.l. agli altri due soci, i quali ultimi si impegnavano a versare la somma di € 460.000,00, a saldo dell’intera operazione.

La scrittura privata includeva, inoltre, un patto di non concorrenza ed una clausola penale, a tenore della quale: La parte inadempiente anche solo ad uno dei punti della scrittura privata avrebbe versato, in favore dell’altra, la somma di € 200.000,00, salvo il maggior danno.

Successivamente, due dei soci incardinavano il giudizio civile, per dedotta violazione del patto di non concorrenza e per conseguente condanna dei convenuti al pagamento della penale.

Il Tribunale di Macerata accoglieva la domanda attorea

Per contro, la Corte d’Appello di Ancona, in accoglimento dell’appello proposto dai convenuti, soccombenti nel primo grado del giudizio, riformava la sentenza di primo grado, disponendo la restituzione delle somme versate in esecuzione della stessa.

Avverso la pronuncia della Corte d’Appello, gli appellati, soccombenti nel secondo grado del giudizio, proponevano ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, ritenuti connessi dalla Suprema Corte.

In particolare, con i primi tre motivi di ricorso, i ricorrenti hanno dedotto la violazione e la falsa applicazione degli art. 1362, 1363, 1366 e 1382 c.c., nonché l’omesso esame, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cpc dell’avvenuto pagamento del prezzo indicato nella scrittura privata e, soprattutto, della riferibilità della clausola penale e del patto di non concorrenza a tutti gli obblighi assunti dalle parti con l’accordo quadro. Segnatamente, secondo i deducenti, il Giudice d’Appello, in violazione delle regole interpretative di cui agli art. 1362 e 1363 c.c., avrebbe omesso di considerare che la penale pattuita nella scrittura privata non riguardava solo la violazione del patto di non concorrenza, ma di tutti gli altri obblighi assunti nell’accordo quadro.

Il Giudice di seconda cure, pertanto, avrebbe erroneamente isolato la clausola penale ed il patto di non concorrenza, relegandoli a meri accessori del negozio di cessione quote.

La quaestio iuris sottesa investe la natura, accessoria o meno,  da assegnare alle clausole di un preliminare (di cessione quote), non riprodotte nel contratto definitivo

Questione giuridica, la cui risoluzione è da rinvenire nell’ambito delle disposizioni sopra richiamate, disciplinati, appunto, l’interpretazione del contratto, da condursi, ai sensi dell’art. 1362 c.c., indagando la “comune intenzione delle parti”, valutando il loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto e non limitandosi al senso letterale delle parole.

Con riferimento alle clausole contrattuali, nel novero delle quali sono sussumibili il patto di non concorrenza e la penale, il criterio ermeneutico di riferimento è quello sistematico, mutuato dalla disposizione di cui all’art. 1363 c.c., a tenore del quale esse si interpretano “Le une per mezzo delle altre”. Il senso di ciascuna clausola si ricava da quello accordato al complesso dell’atto o negozio giuridico.

Tra le altre disposizioni di riferimento, meritano un cenno quella di cui all’art. 1366 c.c., secondo la quale il contratto deve essere interpretato secondo buona fede, principio cardine del codice civile ed assurto a canone costituzionale, per il tramite della clausola di cui al secondo comma dell’art. 2 Cost.

Il principio di conservazione del contratto

Da ultimo, non per importanza, il principio di conservazione del contratto, di cui all’art. 1367 c.c., quello dell’interpretazione contro l’autore della clausola, ex art. 1370 c.c. e le regole finali, contemplate dall’art. 1370 c.c. Queste ultime, con riguardo ai contratti a titolo oneroso, nel cui novero è da collocare quello di cessione quote sociali, stabiliscono che il contratto va interpretato nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti.

In applicazione di tali principi di diritto, la Suprema Corte, con la citata sentenza, ha rigettato il ricorso, sulla base della seguente motivazione:

La Corte d’Appello ha correttamente applicato il principio secondo cui l’omessa riproduzione, nel contratto definitivo di cessione quote, di una clausola contenuta nel preliminare, non comporta, necessariamente, rinuncia alla pattuizione ivi contenuta.

Quest’ultima, infatti, non resta “Assorbita” qualora sussistano elementi in senso contrario, ricavabili dagli atti ovvero offerti dalle parti.

Da tale principio, discende, invero, il postulato ermeneutico secondo il quale il Giudice è tenuto ad indagare sulla concreta intenzione delle parti, per cui occorre verificare se, con la nuova scrittura, le parti si siano limitate, o meno, solo a “formalizzare la cessione nei confronti della società, senza riprodurre tutti gli impegni assunti in sede di preliminare.

Ciò è tanto più vero se solo si considera che il negozio di cessione richiede la forma scritta ai soli fini dell’opponibilità del trasferimento delle quote e non “Ad validitatem” o “Ad probationem”

Pertanto, l’Organo di Nomofilachia ha affermato che la Corte d’Appello competente ha fatto corretta applicazione dei principi ermeneutici riportati, interrogandosi, per poi dare risposta negativa, sulla presenza di elementi tali da dimostrare la volontà delle parti di non rinunciare al patto di non concorrenza.

A tal fine, la Corte d’Appello ha indagato sulla comune intenzione delle parti, anche alla luce del comportamento delle medesime, successivo alla stipula della scrittura privata.

In particolare, il Giudice di seconda cure ha accertato che la scrittura privata aveva natura di preliminare non solo con riferimento alla cessione delle quote societarie, ma anche in relazione a tutti gli altri impegni assunti dai contraenti.

Obblighi, in parte riprodotti in sede di contratto definitivo, in parte adempiuti con separati atti rispetto al rogito di cessione quote, ad eccezione del patto di non concorrenza.

Da tali considerazioni, correttamente, secondo l’Organo di Nomofilachia, la Corte d’Appello ha inferito la natura accessoria del patto, rispetto alla cessione quote sociali.

La decisione del Giudice del merito, alla quale si conforma quella del Giudice del Diritto, sottende la considerazione per cui, se i contraenti avessero voluto confermare la clausola avente ad oggetto il patto di non concorrenza, contenuta nel preliminare, avrebbero dovuto inserirla nel contratto definitivo di cessione quote o in un separato atto.

In altri termini, secondo la Corte di Cassazione, la decisione dei Giudice d’Appello è incensurabile in quanto espressione della comune volontà delle parti contraenti (di non dare corso a tale clausola, in sede di stipula del definitivo), non potendosi desumere il contrario dai comportamenti (fatti o atti) delle stesse parti, successivi alla sottoscrizione dell’originario accordo quadro.

La sentenza della Suprema Corte appare rispettosa dei principi di diritto vigenti, in materia di interpretazione contrattuale, in particolare della necessità di un’interpretazione sistematica e non semplicemente letterale delle clausole contenute in un contratto preliminare di cessione quote societarie

In tale prospettiva, essa interpreta sistematicamente le clausole contrattuale, le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso rinvenibile da un’analisi “D’insieme” e dalla funzione economico sociale, ovvero dallo scopo proprio del contratto di cessione quote sociali.

Resta da interrogarsi sulla conformità e legittimità della sentenza di diritto rispetto alla disposizione di cui all’art. 1371 c.c., ovvero sulla circostanza se essa abbia realizzato l’equo contemperamento degli interessi delle parti, trattandosi di contratto a titolo oneroso.

Appare evidente, infatti, che la sentenza de quo abbia pretermesso l’interesse dei contraenti a mantenere in vita la pattuizione di non concorrenza, contemplata dal contratto preliminare, ledendo l’affidamento riposto dai medesimi nella piena validità ed efficacia di tale clausola.

In relazione ad ulteriore ma connesso profilo, sembra pretermesso anche il principio di conservazione del contratto, contemplato dall’art. 1367 c.c., a tenore del quale le clausole contrattuali devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.

Da ultimo, non per importanza, è in dubbio il rispetto dell’interpretazione secondo buona fede, attesa la probabile mala fides dei contraenti, nel non “dare corso” a precedenti intese, sulle quali, per contro, la controparte contrattuale, riponeva un legittimo affidamento.

Ne deriva un monito alla Magistratura: Una corretta interpretazione di contratti collegati (accordo quadro a monte, singole clausole “a latere” e definitivo) non sembra potersi limitare all’applicazione delle disposizioni del codice civile, relative, appunto, all’interpretazione contrattuale.

Tale attività ermeneutica, trascendendo il dato letterale e risolvendosi in un’interpretazione di sistema, non può prescindere dal rispetto del principio del “legittimo affidamento” e da quello di conservazione del contratto, ovvero dell’assetto di interessi che, per mezzo di esso, i contraenti hanno inteso realizzare, “Ab origine”.

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