Come risolvere il problema debito/Pil

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L’Italia, come noto, presenta uno storico squilibrio del rapporto debito/Pil. La recente emergenza economico/sanitaria l’ha fatto accantonare, ma non è scomparso.

Proprio la necessità di non aggravare determinati squilibri, anche in ottica post covid, non fa scomparire questo problema. E non è un caso che si parli sempre più spesso di come affrontare il problema degli squilibri di finanza pubblica, e di quali risorse utilizzare, come abbiamo fatto qui.

Come risolvere il problema debito/Pil

La classica soluzione europea è quella di prospettare politiche di austerità, per contenere la spesa. Ma spesso questa indicazione si è rivelata insufficiente.

Altra scuola di pensiero preferisce invece puntare sulla crescita economica, sul Pil. Infatti un aumento del denominatore potrebbe far scendere il ratio, anche in caso di aumento del debito in termini assoluti.

E le due vie per perseguire tale strategia sono decremento delle tasse o spesa pubblica.

La riduzione delle tasse

Ridurre le tasse è possibile. Un primo modo è quello di cercare le coperture finanziarie. Ma spesso queste si rivelano insufficienti per gli obiettivi prefissati dalle manovre economiche.

Ma altro modo è quello di contare sull’effetto moltiplicatore, che potrebbe derivare dal fatto di godere di entrate più elevate, al netto di una minor pressione fiscale.

Si usa la seguente formula: 1/(1-c), dove c è la propensione al consumo. Il concetto è semplice: per propensione al consumo intendiamo quale percentuale di quanto risparmiato, ad esempio tramite risparmio fiscale dovuto a minori tasse, viene reimpiegato in acquisti, investimenti ecc.

Ipotizziamo che sia un 50 per cento.

Questo significa che, ad esempio, se si riduce di un 50 per cento la pressione fiscale, su 200 euro lo stato incassa 100 euro di meno. Ma quale domanda di beni e consumi producono i 100 euro risparmiati?

100/(1–0,5) = 200, che, essendo tassato al 50 per cento, porta nuovamente altri 100 euro nelle casse dello stato.

Abbiamo raggiunto una piena copertura della riduzione fiscale, a fronte di un incremento del Pil.

Prima lo stato prendeva 200 euro di tasse, poi le ha ridotte a 100 e, tramite una propensione al consumo del 50 per cento, ha nuovamente ottenuto i suoi 100, ma nel frattempo sviluppando l’economia di un paese.

Ma se la propensione al consumo fosse stata maggiore?

Ad esempio il 60 invece del 50?

Vediamo cosa succede: 100/(1–0,6) =250, che, essendo tassato al 50 per cento, porta allo stato 125. Quindi in questo caso lo stato, pur abbassando le tasse, incassa più soldi di prima.

Tutto dipende dalla propensione al consumo, cioè a spendere quanto risparmiato in prodotti, servizi, investimenti ecc. Certo, il rischio è che a fronte di un ribasso fiscale, una scarsa propensione al consumo non consenta di ottenere gli effetti sperati.

Esempio: propensione al consumo del 20 per cento. 100/(1–0,2) = 125 che, tassato al 50, porta alle casse dello stato 62,5, contro una riduzione di pressione fiscale del 100.

I risultati, come notiamo, dipendono quindi dal livello di tassazione e dal valore della propensione al consumo.

Per questo motivo talora si predispongono piani di riduzione della pressione fiscale, contando su questo effetto moltiplicatore.

Ovviamente bisogna poi sempre considerare cosiddette clausole di salvaguardia, nel senso che, se le cose vanno diversamente, ad esempio proprio perchè la propensione al consumo è minore di quella su cui si contava, occorre coprire il buco conseguente ai mancati introiti fiscali, ed ecco, allora, misure come nuovi incrementi fiscali ecc.

Ma un altro problema è che il deficit, eventualmente provocato per avere realizzato, un anno, meno pressione fiscale, genera un debito che resta, ed ogni anno, in assenza di minori entrate, per mantenere lo stesso risparmio fiscale, occorre magari rinnovare la somma in deficit, che si somma a quello già realizzato l’anno prima. Il tutto, mentre la pressione fiscale resta comunque la stessa su base annua, non è che diminuisca.

Analogo concetto verrà ripreso in materia di incremento della spesa pubblica.

Incremento di spesa pubblica

Del Pil fa parte anche la spesa pubblica, e si potrebbe applicare il moltiplicatore, di cui sopra, anche a tale componente.

Ma, anche senza effetti moltiplicatori, c’è chi sostiene che comunque un incremento di spesa pubblica, anche totalmente finanziato in deficit, non può che portare ad una riduzione del rapporto debito/Pil, per motivi matematici.

Vediamo perché.

Come risolvere il problema debito/Pil? Ipotizziamo quanto segue: passiamo ad un debito pubblico di 1000 miliardi ed un Pil di 500 (quindi rapporto debito/Pil pari a 2), ad una spesa pubblica di ulteriori 500 miliardi, finanziata interamente in deficit, quindi con debito salito a 1500.

Si otterrebbe il rapporto 1500/1000, che porterebbe il ratio da 2 a 1,5, in netta diminuzione rispetto al precedente valore di 2.

Diciamolo subito: è errato.

Infatti ogni anno si deve considerare il valore del Pil realizzato in quell’anno.

Se quindi al Pil già precedentemente realizzato ogni anno dal sistema economico, pari a 500, aggiungiamo un anno una spesa pubblica aggiuntiva di 500, è vero che quell’anno il Pil diviene 1000, a fronte di un debito pubblico divenuto 1500.

Ma poi, l’anno dopo, quella spesa pubblica aggiuntiva va rinnovata, per mantenere lo stesso PIL. Mentre il debito resta quello già raggiunto, in quanto già realizzato, cui si aggiunge il deficit necessario per rinnovare lo stesso livello di spesa.

Quindi, se l’anno dopo non si rinnova la spesa il Pil, in assenza di una spesa pubblica aggiuntiva di 500, ridiscende a 500, quelli prima dell’aumento della spesa, mentre il debito è salito a 1500.

Questo significa che il rapporto debito/Pil diviene il 300 per cento sul Pil.

Quindi, puntare su opzioni di maggior spesa pubblica rischia di produrre un ribasso solo temporaneo del rapporto debito/Pil, che poi tende a risalire.

È  quanto abbiamo visto in diversi casi.

Si ingenera, infatti, un meccanismo analogo alla riduzione della pressione fiscale, se non coperta da un meccanismo moltiplicatore compensativo.

Solo se l’aumento di spesa pubblica ingenera un effetto moltiplicatore, tale da consentire di coprire la spesa con un incremento della base imponibile, non si deve ricorrere a clausole di salvaguardia.

Pertanto possiamo concludere che le strategie basate su una crescita del PIL o su minore pressione fiscale possono essere vincenti, se la maggior crescita economica è tale da coprire una riduzione della pressione fiscale o una maggior spesa pubblica.

Diversamente, in caso di effetti non duraturi in termini di crescita economica, il rischio è quello di una riduzione solo temporanea del rapporto tra debito e Pil conseguente a politiche che privilegino il denominatore del rapporto.

Ecco un altro esempio relativo ad una ipotesi di riduzione della pressione fiscale

Primo anno riduco pressione fiscale di 1000, realizzo deficit di 1000.

Dal secondo anno per mantenere una riduzione sempre di 1000, devo fare nuovo deficit per altri 1000.

Quindi il debito si incrementa, anno su anno, il secondo anno raggiungendo un tutale di 2000, ma non è che il secondo anno si ottenga una riduzione di pressione di 2000.

Quella resta sempre 1000, quindi il rapporto si squilibra sul fronte del debito.

Un po’ la stessa cosa di un imprenditore che ogni anno debba pagare a debito determinate spese.

Ogni anno deve coprire una spesa ricorrente, ad esempio sempre di 1000, con un debito di 1000.

E l’anno dopo deve coprire sempre la stessa spesa, ma il debito è divenuto 2000.

Ancora una volta, quindi, resta convalidata l’ipotesi che il problema del deficit e del debito possano trovare una soluzione effettiva, probabilmente solo spostando la questione della proprietà della moneta: dello stato, o invece del mercato o di una banca centrale, che lo emettono, ma in forma di prestito concesso acquistando titoli del debito?

A cura di Gian Piero Turletti, autore di “Magic Box” e “PLT

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