Stress Test: servono o sono un’inezia? di Gian Piero Turletti

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Gian Piero Turletti è Autore dei seguenti Ebook per Proiezionidiborsa Libreria:

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STRESS TEST BANCARI:

COSA SONO, A COSA SERVONO ( O MEGLIO PERCHE’ NON SERVONO) E QUALI SONO I RELATIVI RISULTATI (ANTICIPATI RISPETTO ALL’USCITA UFFICIALE DELLE 22 DI OGGI)?

Vi dico subito che, per le ragioni esposte nel prosieguo, considero totalmente inattendibili i cosiddetti stress test bancari.

Detto questo per chi voglia saltare subito alle conclusioni, ecco di seguito, invece, alcune spiegazioni tecniche per chi desideri saperne qualcosa di più.

Gli stress test bancari riconducono, in prima origine, a quei famosi accordi di Basilea, in cui fu definito quale doveva essere il capitale minimo di un istituto di credito, a copertura dell’esposizione assunta verso determinate tipologie di rischio.

Non tutti i soldi investiti da una banca, infatti, hanno lo stesso rischio, né più, né meno di quello che succede nel portafoglio di un qualsiasi investitore, che abbia diversificato i propri impieghi su diverse tipologie di investimento.

Non è la stessa cosa, ad esempio, imprestare soldi allo stato investendo su titoli del debito pubblico ( in Italia BTP, BOT, CCT), invece che imprestarli ad una pmi, piuttosto ancora che investirli in un pacchetto azionario o su derivati finanziari.

Credo che questo sia un concetto elementare e chiaro a tutti.

Ogni categoria di investimento, pertanto, ha un rischio diverso, che le diverse agenzie di rating classificano solitamente con codici in lettere o alfa numerici, o con lettere seguite dal segno più o meno.

Definito questo concetto, è quindi stato stabilito, per ogni tipologia di rischio, una percentuale di accantonamento che, come capitale, la singola banca doveva appunto mettere a disposizione per coprire il relativo rischio. Se mi permettete una piccola digressione, questo spiega anche perché le banche preferiscano, in molti casi, alcuni impieghi ad altri. Infatti non è solo il diverso rischio a far decidere in tal senso, ma anche il fatto che per taluni impieghi bisogna mettere a copertura un capitale minore, rispetto a quello occorrente per impieghi più rischiosi.

Così, ad esempio, si può stabilire che un’esposizione su crediti considerati quasi a rischio zero (tipicamente i titoli di stato di alcuni paesi) comporti un accantonamento di solo il 50 per cento, per arrivare invece a coperture anche superiori al 100 per cento sui rischi considerati maggiori, ad esempio esposizioni creditizie verso piccole e medie imprese, a maggior ragione se non hanno significativi risultati di bilancio positivi alle proprie spalle, come nel caso di imprese nate da poco.

Naturalmente, una volta diffusi tali concetti, la relativa applicazione dipende dalla quantificazione usata nelle diverse formule, nel senso che, ad esempio, a parità di formule generali adottate, non troviamo la stessa quantificazione dei parametri da parte della Fed, piuttosto che da parte dell’EBA (autorità di vigilanza europea), piuttosto che da parte di un singolo istituto di credito in un’altra parte del mondo, che voglia comunque adottare un sistema analogo a quello di Basilea, pur non dovendo farlo obbligatoriamente.

Per fare un esempio, una formula particolarmente rigida e conservativa, ad esempio, potrebbe imporre comunque di accantonare per qualsiasi credito bancario, a prescindere dal rischio stimato, una percentuale non inferiore al 100 per cento del correlato impiego.

Introdotto questo fondamentale concetto, va detto che i cosiddetti stress test bancari appartengono ad analisi di tipo what if, cioè cosa succede se….

Si tratta, in pratica, di ipotizzare, applicando determinate percentuali di rischio alle varie tipologie di impiego assunte dalla banca, una contrazione dei crediti bancari in una misura percentuale collegata alla riduzione generale del PIL, prevista nell’ambito di un’ipotesi recessiva del ciclo economico relativa ad una determinata area geoeconomica.

Quindi, per ogni categoria di impiego detenuto dalla banca nel proprio attivo, si calcola la relativa contrazione, e si vede, applicando la percentuale di copertura del rischio, spiegata nella prima parte dell’articolo, quale capitale avrebbe dovuto essere accantonato a copertura.

In base a regole più o meno rigide, le diverse normative, a partire da quella di Basilea, hanno peraltro definito quali elementi di bilancio possano andare a contribuire o meno alla copertura, cioè possano costituire o meno capitale di copertura dei rischi, ponderati come sopra abbiamo visto.

Si arriva così alla definizione di quello che comunemente viene denominato anche quale capitale di vigilanza, nel senso di capitale la cui presenza o meno è monitorata dai competenti organi di vigilanza bancaria, proprio al fine di capire se sono state applicate le regole di accantonamento a copertura del rischio relativo alle diverse tipologie di impiego.

Precisati questi elementi tecnici, ovviamente la valutazione di molti di questi si basa su elementi statistici, in parte discrezionali, necessari per rendere operative le formule collegate agli stress test.

Ad esempio fatto 100 un complesso di attività, pari al totale degli impieghi bancari sviluppatosi in un determinato lasso temporale, si può analizzare quale percentuale appartenente ad una determinata tipologia vada in default, cioè diventi credito non più esigibile, in modo da definire un rating appropriato.

Ma le analisi di tipo what if devono, in primis, come abbiamo visto, partire da un’ipotesi generale, che per l’Italia è la seguente: si ipotizza quale scenario peggiore  un PIL che cede il 5,9% in un triennio e il crollo della Borsa di quasi il 29% quest’anno e di oltre il 25% nel 2017.

Praticamente, quali sono i risultati di un test siffatto, applicando i concetti sopra esposti?

I risultati ufficiali dovrebbero essere resi noti oggi alle 22, ma già sarebbero stati anticipati da talune previsioni del Credit Suisse.

L’uso del condizionale è d’obbligo, in quanto non è dato sapere se nell’implementazione degli algoritmi inerenti alla definizione del capitale di vigilanza, si siano esattamente usati gli stessi parametri da parte dell’istituto elvetico.

Comunque ecco i risultati resi noti dall’istituto elvetico, per quanto concerne le banche italiane: solo Intesa e Ubi, in caso di scenario avverso, possono contare su un capitale in eccesso.

Per quanto riguarda Unicredit e Mps, invece, Credit Suisse ha sottolineato carenze comprese fra i 4 e i 9 miliardi nel caso dell’istituto guidato da Jean-Pierre Mustier e fra 600 milioni e 3,5 miliardi per quanto riguarda la banca senese. ( già la forchetta di risultati dimostrerebbe che si sono formulate diverse ipotesi, o quanto meno utilizzati range di parametri diversificati, quindi probabilmente ci sarà un certo scostamento rispetto ai dati ufficiali).

Ma domandiamoci se tali test abbiano senso oppure no.

Naturalmente la risposta a tale domanda implica, necessariamente, una certa soggettività, legata anche alle esperienze maturate dal singolo analista.

Personalmente dico di no, quanto meno per due ordini di fattori.

Come già ampiamente esemplificato da importanti istituti di analisi, non ultimo l’ufficio studi della banca d’Italia, il rischio insito in analisi condotte nella logica riconducibile, in primis, agli accordi di Basilea, è quello di essere sostanzialmente prociclico, cioè di evidenziare elementi di criticità in situazioni negative, e di positività quando il ciclo economico è rialzista.

Mentre, semmai, la valutazione più opportuna dovrebbe essere anticiclica, cioè favorire indicazioni e suggerimenti per contrastare un eventuale ciclo negativo, finalità opposta a quella insita nella logica finanziaria tipo Basilea.

Come se questo non bastasse, entrando ancora più nel merito dei parametri oggi adottati dalle autorità di vigilanza, vorrei sottolineare un elemento di particolare criticità nell’adozione di siffatti modelli di analisi.

Per concentrare l’attenzione su uno di quelli maggiormente comprensibili a tutti, sottolineo come questo tipo di test già abbia avallato un rischioso paradosso: almeno nella precedente edizione degli stress test, si era considerata l’esposizione che dovrebbe rappresentare il core business di una banca, cioè il prestito verso famiglie ed imprese, come molto più rischioso rispetto ad un’esposizione verso strumenti quali bond, titoli azionari, o derivati, in particolare in percentuale il core business pesava per l’80 per cento del rischio, mentre il rischio di mercato appena per un 6 per cento.

Conseguentemente, passarono più agevolmente il test istituti di credito del nord europa impelagati in rischiose esposizioni finanziarie, invece che istituti del sud europa, più ancorati al tradizionale core business.

Un esempio eclatante, che oggi dimostra l’assurdità di tali test: oggi è sotto gli occhi di tutti la situazione di Deutche bank, mentre allora (2014) l’Rwa di Deutsche Bank era stimato di soli 353 miliardi (RwA = Risk weighted asset, cioè appunto capitale a copertura dei rischi).

Ora, come noto, invece, recenti analisi parlano di un rischio pari secondo taluni a circa 20 volte il PIL tedesco, 54700 miliardi di Euro.

Vi lascio richiamando le due cifre: rischio stimato, e conseguente necessità di coprirlo con relativo capitale, nel 2014: 353 miliardi, oggi si dice: 54700 miliardi.

Domanda: era attendibile un test di questo genere?

 

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